Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim Prefazione - R. Israel Meir Hacohen Kagan


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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Prefazione


Benedetto sia il Signore D-o d’Israele, che ci ha distinto dagli altri popoli, ci ha dato la sua Torà, e ci ha fatto entrare in Terra Santa per darci il privilegio di eseguire tutti i suoi precetti. E tutta la sua intenzione è solo per il nostro bene, affinché in questo modo ci santifichiamo davanti a lui, così come è scritto (Numeri 15, 40): «Affinché vi ricordiate e osserviate tutti i miei precetti e siate santi per il vostro D-o.» In tale modo potremo ricevere l’effetto di tutta la sua bontà in questo mondo e nel mondo futuro, così come è scritto (Deuteronomio 10, 12-13): «Che cosa ti richiede il Signore tuo D-o, se non […] di rispettare i precetti di D-o e i suoi decreti che io ti comando oggi per il tuo bene» (si noti il commento del Ramban, che dice che “per il tuo bene” si riferisce all’inizio del versetto: «Che cosa ti richiede il Signore tuo D-o»).


E non solo egli ci ha dato la sua Torà, ma ci ha anche ordinato di non abbandonarla, così come è scritto (Proverbi 4, 2): «Vi ho dato un buon insegnamento: non abbandonate la mia Torà.» E ciò, ben diversamente da come fa l’uomo, che quando fa un dono a qualcuno e vede che costui non ne fa buon uso e non lo apprezza, attende e anela al momento in cui l’amico abbandoni il dono per poterne riprendere possesso. Non così si comporta il nostro D-o, che ci ha dato [un aiuto] in ogni generazione. [Ci ha dato] i profeti, all’epoca del Primo Tempio, per indurci a tornare sulla retta via. E perfino all’epoca del Secondo Tempio, quando il popolo ebraico cominciò ad allontanarsi dalla sua santità originale, per via dei nostri molti peccati, e perse cinque elementi rispetto al Primo Tempio (Talmud Bavli, Yoma 21b), malgrado ciò, trovandoci sulla nostra terra e avendo il santo tempio, potevamo ancora osservare tutti i precetti della Torà, e con ciò completare tutte le componenti della nostra anima. Infatti, [così come il nostro corpo,] anche la nostra anima conta 248 membra e 365 nervi - spirituali. Si consulti lo Shaarè Kedushà (Porte della Santità) di rav Chaim Vital, cap. 1.


Ma alla fine dell’epoca del Secondo Tempio, l’odio gratuito e la maldicenza hanno prevalso tra di noi, per via dei nostri molti peccati, e per questo motivo fu distrutto il santo tempio e fummo esiliati dalla nostra terra, come è riportato nel Talmud Bavli (Yoma 9b) e nel Talmud Yerushalmì (Yoma cap. 1, 1, foglio 4b). E perfino se il Talmud menziona solo l’odio gratuito, il significato include anche la maldicenza, la quale deriva dall’odio; perché altrimenti non avrebbero ricevuto una così grave punizione. Così come alla fine del testo citato si legge «Per insegnarti che l’odio gratuito equivale all’idolatria, alle unioni proibite e allo spargimento di sangue [messi assieme],» ed è ciò che abbiamo letto nel Talmud Bavli, ’Arakhin 15b, riguardo alla maldicenza. Per di più, il testo del trattato di Yoma dimostra quanto sopra, nella questione «E nel Primo Tempio» fino a «e pugnalano i loro amici» (si veda colà).


E da allora, fino a oggi, ogni giorno aspiriamo e preghiamo il Santo, benedetto Egli sia, che ci avvicini, così come ci promise a più riprese nella sua santa Torà e tramite i suoi profeti, e la nostra preghiera non è accettata da lui, così come i nostri Maestri hanno detto (Talmud Bavli, Berakhot 32b): «Da quando fu distrutto il santo tempio, un muro di ferro separa gli ebrei dal loro Padre che è in cielo.»


E difatti, non ce la prendiamo con lui, che D-o ce ne guardi, ma con noi stessi, perché Egli non mancherà, che D-o ce ne guardi, così come è scritto (Isaia 59, 1-2): «Non è troppo corto il braccio di D-o per salvarci, né sordo il suo orecchio per sentirci, ma sono i vostri peccati ecc…». E all’epoca di rabbi Yehoshùa ben Levì, come è scritto nel Talmud Bavli (Sanhedrin 98a), gli fu risposto che oggi stesso verrà il mashìach, malgrado non fosse ancora compiuto il tempo [della fine] dell’esilio, secondo il decreto per il quale gli ebrei rimarranno mille anni in esilio, corrispondenti a un giorno per il Santo, benedetto Egli sia, come insegnano i Maestri (Talmud Bavli, Sanhedrin 97a). Malgrado ciò, la forza della teshuvà* sarebbe bastata per annullare il decreto, e, a maggior ragione, oggigiorno, 800 anni dopo la fine del tempo fissato. E non c’è altra causa all’infuori di noi stessi che, con i nostri molti peccati, non Gli permettiamo di ergere la sua presenza tra di noi.


E quando ricerchiamo quali sono i peccati principali che provocano il prolungamento del nostro esilio, ne troviamo molti. Ma il peccato della maldicenza li sovrasta, per molti motivi: Essendo esso il motivo principale del nostro esilio, come abbiamo già spiegato (cfr. supra Yoma – Bavli e Yerushalmì), allora come potrebbe avvenire la redenzione fino a che non avremo riparato questo peccato? Poiché questo peccato fu tanto grave da causare l’esilio dalla nostra terra, a maggior ragione, non ci permette di ritornarci.


Inoltre è noto che l’esilio fu decretato fin dall’episodio dei [dodici] esploratori, come è scritto nei Salmi (106, 26-27): «E giurò loro di farli soccombere […] tra le nazioni e di disperderli nelle loro terre,» e secondo il commento di Rashì su questo salmo e di Ramban sulla Torà (Numeri 14, 1). Inoltre, il peccato degli esploratori non era [forse] la maldicenza, come è scritto nel Talmud Bavli (’Arakhìn 15a)? Perciò, siamo obbligati a riparare questo peccato prima della redenzione.


È pure spiegato esplicitamente che per questo peccato gli ebrei vengono puniti con i lavori forzati, come è scritto nell’Esodo (2, 4): «Dunque la cosa è risaputa,» e cfr. il commento di Rashì a questo versetto. Ed è pure esplicitamente spiegato nel Midràsh Rabba (6, 14), alla fine della parashà di Ki Tetzè: «Disse il Santo, benedetto Egli sia: ‘Poiché in questo mondo c’è tra di voi il peccato della maldicenza, Io ho allontanato da voi la presenza divina. Ma in futuro, ecc…’». C’è anche un versetto esplicito nella Torà (Deuteronomio 33, 5): «E ci fu un re in Yeshurùn*, quando si radunarono i capipopolo e tutte insieme le tribù d’Israele». Rashì commenta seguendo il Sifri*, che ci sarà un re in Yeshurùn quando le tribù d’Israele saranno insieme e non divise. E si sa che la maldicenza provoca divisioni.


E a parte questo, come potranno realizzarsi su di noi le benedizioni del Santo, benedetto Egli sia, a cui aneliamo, allorché per via delle nostre molte colpe ci siamo assuefatti a questo peccato? Non vi è forse una maledizione specifica nella Torà (Deuteronomio 27, 24): «Maledetto colui che colpisce il prossimo di nascosto», che si riferisce alla maldicenza, come indica il commento di Rashì? E ciò si aggiunge alle altre maledizioni lì menzionate, come verrà spiegato alla fine dell’introduzione (si veda colà).


Inoltre, è noto dal già menzionato brano del Talmud Bavli (’Arakhìn 15b) che l’entità di questo peccato è incalcolabile, al punto che esso è paragonato a un’eresia, che D-o ce ne guardi. Ed è scritto nel Talmud Yerushalmì (Peà 1, 1 foglio 4a) che si viene puniti per questo peccato sia in questo mondo che nel mondo futuro (si veda anche l’introduzione e il mio libro Shemirat Halashon, in cui abbiamo ricopiato tutti i passaggi del Talmud, dei midrashìm* e del santo Zohar riguardo a questo argomento, e a colui che approfondirà e ci rifletterà adeguatamente si rizzeranno i capelli per quant’è grande il peccato!).


Ed è chiaro, che il motivo per cui la Torà ha tanto insistito su questo peccato è che esso incita particolarmente il “grande accusatore” contro il popolo ebraico, e in questo modo uccide diverse persone in diversi paesi. Così scrive il santo Zohar (Pekudè 264b): «C’è uno spirito preposto a tutti quei maldicenti, e quando gli uomini destano una maldicenza, o un uomo in particolare desta una maldicenza, in alto si desta pure quello spirito malvagio e impuro che si chiama sakhsùkha (zizzania) e si apposta su quella maldicenza che hanno detto gli uomini, e accede ai mondi superiori e con questa maldicenza provoca malattie, guerre e uccisioni nel mondo. Guai a coloro che destano questo processo maligno e non sorvegliano la propria bocca e la propria lingua e non ne hanno timore, e non sanno che il destare [un fenomeno, in questo caso la maldicenza] in alto dipende dal destare [quel fenomeno] in basso, sia nel bene che nel male, eccetera. E sono tutti accusatori che destano questo grande serpente al fine di accusare il mondo, e tutto ciò per questo destarsi della maldicenza, allorché si desta la maldicenza del basso».


E si può dire che questa è l’intenzione del Talmud, ’Arakhìn già citato: «Chi dice una maldicenza accresce il peccato fino al cielo», come è detto (Salmi 73, 9): «Hanno posto la loro bocca in cielo, e la loro lingua procede in terra», cioè: malgrado la loro lingua proceda in terra, la loro bocca è posta in cielo. E così dice il Tana Devè Eliahu (Rabà, cap. 18), che la maldicenza che uno pronuncia s’innalza fino al trono celeste. E da qui potremo capire quanta sia la distruzione che i maldicenti provocano al popolo ebraico.


Un’altra spiegazione della grandezza del danno provocato da questo peccato: quando l’uomo corrompe la propria lingua con discorsi vietati, impedisce a ogni parola di santità che dirà in seguito d’innalzarsi, secondo quanto scritto nel santo Zohar (Pekudè 263b): «E da questo spirito malvagio ne dipendono altri maligni, incaricati di catturare una parola cattiva o volgare pronunciata da qualcuno che in seguito profferisce parole sante. Guai a loro, guai alla loro vita, eccetera. Guai a loro in questo mondo, guai a loro nel mondo futuro, perché quegli spiriti maligni catturano quella parola impura, e quando l’uomo in seguito dice una parola santa, essi si precipitano a catturare la parola impura e rendono impura anche quella parola santa, e l’uomo non ne trae vantaggio, e in un certo modo si indebolisce la forza della santità». Non è forse chiaro da questo passaggio del santo Zohar che tutte le nostre parole di Torà e le nostre preghiere rimangono sospese nell’aria del cielo e non salgono in alto? E da dove ci verrà l’aiuto per fare venire il mashìach e ciò che gli è connesso?


E quando approfondiremo questo argomento scopriremo ancora di più: non solo si tratta di un peccato criminale, come abbiamo già spiegato, ma esso ingrandisce anche il danno in tutti i mondi e oscura la loro luce, perché alcune persone sono abituate a moltiplicare questa trasgressione centinaia e migliaia di volte nel corso della loro vita. Perfino un piccolo peccato, moltiplicato per molte volte, diventa grosso come il traino di una carrozza, come gridò il profeta Isaia (5, 18): «Guai a chi tira la perversità con le corde del male, e il peccato con il traino di una carrozza!» E l’esempio viene dai fili di seta, quando li moltiplichi centinaia di volte. E, a maggior ragione, questo peccato, che già di per sé è gravissimo, e parecchie persone sono abituate a trasgredirlo molto spesso, migliaia di volte nel corso della loro vita, e non cercano per niente di dissociarsene; a maggior ragione il danno in alto è certamente incalcolabile.


E qual è il motivo per cui molte persone sono del tutto indifferenti a questo divieto? Ho concluso che ciò è dovuto a vari motivi, sia per quanto riguarda le masse, sia per quanto riguarda gli studiosi: le masse non sanno nemmeno che il divieto della maldicenza include persino [i casi in cui si dice] la verità. E quanto agli studiosi della Torà, perfino coloro che sanno che il divieto della maldicenza include anche la verità, lo yetzer* inganna alcuni di loro in altri modi:


1) Lo yetzer li convince che la persona di cui parlano è un adulatore, e dice loro che è mitzvà* svelare adulatori e malvagi!1. 2) Li convince che quello è un seminatore di zizzania, ed è permesso parlarne male. 3) Li tenta ricordando loro che c’è una deroga [quando si parla] in presenza di tre persone. 4) Li tenta ricordando loro il permesso di parlare in presenza dell’interessato, cioè quando al momento della maldicenza [colui che la dice] è convinto che la direbbe pure davanti a lui. Lo yetzer mostra loro i passaggi correlati, si veda più avanti nelle Regole 2, 3 e 8. 5) Li tenta ingannandoli sul contenuto del discorso, sostenendo che non è maldicenza, come fanno molte persone, a causa dei nostri molti peccati, dicendo che l’interessato non è intelligente, come spiegheremo più avanti (lashon harà', Regola 5).


In generale, lo yetzer agisce in uno dei due modi seguenti: convince che non si tratta di maldicenza, o che la Torà non ha vietato la maldicenza di un individuo di questa sorta.


E quando lo yetzer vede che con questi argomenti non inganna l’uomo, lo convince del contrario, cioè a esagerare così tanto le regole della maldicenza fino a fargli credere che tutto è maldicenza, e che quindi non si può vivere in questo universo senza separarsi completamente dagli interessi terreni. Questo è come l’inganno del serpente, che disse (Genesi 3, 1): «È vero che D-o ha detto ‘Non mangerete niente di tutti gli alberi del giardino’?».


E a parte questo, molte persone ignorano anche il divieto di accettare la maldicenza, il quale ci proibisce perfino di crederci interiormente, perché bisogna soltanto sospettare2 (Talmud Bavli, Niddà 61a). E [ignorano] anche molti altri argomenti simili riguardo l’accettazione di lashon harà' e rekhilut, che non si possono spiegare qui. E per di più, se trasgrediscono il divieto di lashon harà e rekhilut, e se accettano [la maldicenza], non sanno come riparare l’errore.


E per questi motivi tutto il sistema crolla, perché la persona si abitua a parlare come viene, senza soppesare in anticipo se ciò che sta per dire rientra nel divieto di rekhilut e lashon harà'. E ci siamo così abituati a questa trasgressione, per via dei nostri molti peccati, al punto che molte persone [si convincono] che non sia per niente un peccato, perfino quando si dice qualcosa su cui tutti sono d’accordo che trattasi assolutamente di lashon harà' e rekhilut. Per esempio: quando Tizio sparla di Caio e lo critica molto pesantemente, se uno gli chiede: “Perché hai detto lashon harà' e rekhilut?” penserà che questi cerchi di trasformarlo in un santo, in uno tzaddìk, e non accetterà per niente il rimprovero, perché constata che questa cosa è ignorata da tutti, per via dei nostri molti peccati.


E la fonte di tutti questi disastri è che non si è raccolto in un unico contesto tutto ciò che riguarda lashon harà' e rekhilut, spiegandone le proprietà e gli argomenti, in generale e in particolare; invece [tutti i riferimenti sull’argomento] sono sparsi nel Talmud e nei testi dei primi Maestri. Perfino Rambam (Mishnè Torà, Leggi della Conoscenza, cap. 7) e Rabbenu Yona (Shaarè Teshuvà), che ci hanno aperto la strada riguardo a questa regola, l’hanno esposta molto brevemente, secondo l’uso dei primi Maestri. E ci sono anche molte regole che non sono incluse nei loro scritti, come realizzerà il lettore all’interno di questo testo.


Perciò «Mi sono cinto i fianchi come un eroe»3, con l’aiuto di D-o benedetto che elargisce all’uomo la conoscenza, e ho raccolto tutte le leggi di lashon harà' e rekhilut in un [unico] testo, attingendole da tutti i passaggi in cui sono sparse nel Talmud e nei poskìm*, in particolare Rambam, Samàg, e Shaarè Teshuvà di Rabbenu Yona di benedetta memoria, che ci hanno illuminato su questa mitzvà*. Ho anche raccolto delle regole attingendo dalle risposte del nostro maestro rav Yosèf Caro e altre responsa su questo argomento.


E ho suddiviso questo libro in 2 parti:


  • Le regole del divieto di lashon harà'.

  • Le regole del divieto di rekhilut.

[E difatti molte delle regole della rekhilut potrebbero essere dedotte dalle regole del divieto della lashon harà', ma mi sono risoluto a ripetere i dettagli di ogni regola, a causa dell’enorme ostacolo rappresentato dal peccato della maldicenza (che D-o ce ne liberi), non si può contare semplicemente sul fatto che lo studioso in cerca di una regola precisa cerchi di dedurre una cosa da un’altra (e anche di questo non si è sicuri). Inoltre, in tutti gli argomenti c’è qualcosa di specifico, che non si può dedurre dalle regole del divieto di lashon harà', e già dissero i nostri Maestri in un simile frangente, che ogni passaggio che viene detto e ripetuto, la ripetizione è dovuta unicamente a un elemento specifico che le è proprio.]

E quando l’Eterno me ne darà merito cercherò, senza impegno, di aggiungere a queste due parti una terza parte, in cui raccoglierò tutti i passaggi del Talmud, dei midrashìm* e del santo Zohar su questo argomento, poiché in questo modo si farà luce sulla ricompensa in questo mondo e in quello futuro per chi si astiene da questo peccato e sulla punizione per chi trasgredisce questo divieto. Inoltre, ho diviso le leggi di cui sopra in Regole, e ogni Regola in vari paragrafi, affinché il lettore possa scorrerle agevolmente. E in quasi tutte le Regole ho riportato degli esempi a riguardo, affinché il lettore rifletta su come evitare la maldicenza nella pratica quotidiana.


E ho chiamato questo libro nella sua totalità Chafètz Chaìm (Desideroso di Vita), secondo il versetto dei Salmi (34, 13): «Chi è l’uomo che desidera la vita ecc.» E per non stancare il lettore con la lettura di ogni legge e delle sue fonti, considerata la lunghezza che vi si può riscontrare, l’ho diviso in due [parti]: La parte interna, cioè il codice in breve, così come si deriva dallo studio delle fonti, si chiamerà La Fonte della Vita, perché la parola dell’uomo proviene dalla forza dello spirito che lo anima, così come è scritto (Genesi 2, 7): «E l’uomo divenne uno spirito vivente», che Onkelos* tradusse “spirito parlante.” La spiegazione in corollario, che si chiamerà Pozzo d’Acqua Vivente, perché è il pozzo da cui ho attinto la Fonte della Vita, cioè la parte interna.


E sappi, fratello mio lettore, che perfino di ogni cosa elementare che si trova nella parte interna ho mostrato la fonte nel Pozzo d’Acqua Vivente4, affinché sia chiaro a tutti che non ho redatto questo libro secondo i criteri della chassidut5, ma secondo i dettami della legge.


(E terminerò con un appello al caro lettore: forse troverà un passaggio che a prima vista non gli sembrerà corretto: forse dal punto di vista della legge, che gli sembrerà un’esagerazione gratuita, o dal punto di vista del linguaggio, che gli sembrerà inutilmente prolisso o abbreviato – ch’egli non si affretti a dichiararlo un errore, finché non avrà studiato attentamente il Pozzo d’Acqua Vivente e tutte le normative che regolano quella legge. Perché se manca anche solo una norma di questa regola, non si può capire correttamente il resto. Perché in vero ho esaminato nei minimi dettagli ogni paragrafo di questo libro (aiutato da colleghi esperti nella Torà) e ho cercato a più riprese, che mai si trovi nel Talmud una contraddizione al nostro testo, e più volte ho esaminato uno stesso passaggio per diversi giorni finché con l’aiuto di D-o benedetto ho appurato la vera legge. E confido in D-o benedetto che il lettore che accetterà le nostre parole ed esaminerà a dovere tutte le regole della legge vedrà giustamente che ogni parola contenuta nel libro è scritta con la precisione della Legge. E a volte avrei potuto modificare il linguaggio e renderlo più succinto o più prolisso, per facilitarne la comprensione, ma non ho voluto modificare il testo di Rambam e degli altri poskìm* da cui la legge è derivata. E l’Altissimo giudicherà benevolmente coloro che mi giudicheranno benevolmente).

[E non si stupisca il lettore, che malgrado tutto questo libro sia basato sui dettami della legge, io citi in alcuni passaggi prove provenienti dal libro Shaarè Teshuvà di Rabbenu Yona, che è un libro di morale. Infatti, chi legge attentamente i suoi santi testi osserva in vari passaggi che in verità egli si è rigorosamente applicato a non scostarsi dalla lettera della legge; in particolare, nelle sue leggi di lashon harà', per ognuno degli argomenti che ha scritto esiste una fonte nel Talmud, come vedremo, D-o volendo, in questo libro. Però egli scrisse in modo succinto e non citò le fonti, secondo l’uso dei primi Maestri. E ciononostante, mi sono basato solo su di lui unicamente nelle parti in cui sembra optare per una decisione indulgente, (e così per la maggior parte degli altri libri di morale), ma quando trattasi di optare per una decisione rigorosa, ho quasi sempre citato più fonti, come vedrà chi studierà la parte interna. E so che si potranno forse trovare persone che vogliono e desiderano dire del male del prossimo, e si sono abituate a questo amaro peccato, al punto che niente può distoglierle dalla loro via malvagia; e quelle persone, quando vedranno nel mio libro una decisione indulgente, non esamineranno le condizioni necessarie per poterla adottare, e si permetteranno dei comportamenti che non ho avuto l’intenzione di avallare, e lo faranno senza rimorsi, perché useranno questo libro come scusa. Ma mi sono detto: non negherò il bene a chi segue la retta via, a causa di persone come quelle, così come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Bava Batra 89b): «[L’ha detto o non l’ha detto?] L’ha detto! E l’ha detto per via di questo versetto (Osea 14, 10): ‘Sono rette le strade del Signore, e i giusti le percorreranno’.» E so bene che ci saranno delle persone che vorranno sminuire il valore di questo studio, e si appoggeranno al detto dei nostri Maestri, nel Talmud Bavli (Betzà 30a): «È meglio che pecchino per errore e non intenzionalmente» (vedi pure Ahavàt Chésed, seconda parte, cap. 9, nota). Ma in verità la ragione è dalla mia parte, per diversi motivi: 1) Su ciò che è esplicito nella Torà non si dice «È meglio che pecchino per errore e non intenzionalmente», come l’ha stabilito lo Shulchan Arukh* (Òrach Chaìm, cap. 608, par. 2, nota); e lashon harà' e rekhilut sono espliciti nella Torà. 2) Se così fosse, non dovremmo insegnare al pubblico le leggi del ghezel (estorsione), perché anch’esse sono difficili da rispettare, come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Bava Batra 165a). (E malgrado essi abbiano precisato che tutti cadono nel tranello della lashon harà', lo hanno detto solo riguardo alla “polvere di lashon harà'6, come ha ribattuto il Talmud: «Come puoi dire che tutti cadono nella lashon harà'? [Risposta: cadono nella polvere di lashon harà'].» E sarà utile in ogni caso di studiare questi argomenti per scampare al peccato stesso. E perfino dalla polvere di lashon harà' ci si può salvare, se ci si impegna con il cuore e con la mente; e l’espressione «Non c’è uomo [che non caschi in quel tranello]» non va intesa in senso letterale). E forse allora non dovremmo insegnare loro le leggi dello shabbat, che sono come «Monti appesi a un capello» (Talmud Bavli, Chaghigà 10a), e molte di loro sono difficili da applicare? E anche come ci hanno tramandato i nostri Maestri nel Talmud Bavli (’Arakhìn 15b e 16) i princìpi di questi argomenti, per esempio: «A cosa assomiglia la lashon harà'? All’incendio in casa di qualcuno7 e via di seguito. Inoltre, lo dimostreremo dal testo stesso: non c’è forse scritto nella Torà (Deuteronomio 24, 9): «Ricorda ciò che il Signore tuo D-o ha fatto a Miriàm ecc.»? E Ramban nella sua spiegazione a nome del Sifri* (Torat Kohanìm, Bechukkotày, parashà 1, lett. 3) dice che bisogna ricordare sempre a voce la storia di Miriam, per riflettere in questo modo a quanto sia grande questo duro peccato; e secondo loro, al contrario: non ricordiamolo e saremo autorizzati a peccare per errore! Invece è chiaro che la Torà ha tenuto conto dell’intelletto umano, che ha in sé le forze per evitare questo peccato (ché se così non fosse, [come spiegheremmo che] il Santo, benedetto Egli sia, non pretende dalle Sue creature più delle loro possibilità – Midrash Tanchuma, Zot Haberakhà, 4). E se ci si rifletterà sempre, ciò sarà certamente utile per salvarsi da questo peccato. Si troverà anche un’ulteriore utilità in questo studio: che in questo modo non si sarà indifferenti al problema della lashon harà' cosicché, perfino nel caso in cui ci si caschi di tanto in tanto, almeno non si verrà catalogati tra i maldicenti; perché su questo hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (’Arakhìn 15b) che è paragonabile ai tre peccati più gravi8 e che i peccatori non si meriteranno la presenza divina (Talmud Bavli, Sotà 42b9) e [subiranno] pure altre dure punizioni, come provano le parole di Rabbenu Yona nello Shaarè Teshuvà (terza parte, lett. 203) e le parole del Kèsef Mishnè10 nel Mishnè Torà (Leggi della Conoscenza, cap. 7) – invece [il fatto di cascarci di rado gli varrà di essere punito] soltanto come per gli altri divieti. Inoltre, grazie a questo studio saprà di avere peccato di fronte a D-o, e come ha detto il profeta Geremia (2, 35): «Ti chiamo a giudizio per avere detto ‘non ho peccato’.» E quindi cercherà di ottenere il perdono del prossimo per questa mancanza, o almeno di non riparlarne un’altra volta; ciò che non accadrebbe se, D-o ce ne guardi, gettasse la cosa alle proprie spalle e non lo considerasse per niente un peccato.]

Ho anche aggiunto a questo libro un’ampia e lunga introduzione, in cui sono dettagliati tutti i precetti e i divieti che trasgredisce abitualmente chi non sta attento a evitare questo amaro divieto della lashon harà' e della rekhilut (abbiamo trovato lo stesso concetto nella Mishnà (Nedarìm 65b) e nel Talmud (Menachot 44a) si consulti colà), forse D-o vorrà che in questo modo venga colpito lo yetzer*, nel constatare l’entità del tumulto e dei guai provocati da colui che sparla.


E anche senza ciò, è risaputo ciò che è scritto nel Midrash Rabba (Nasò, parashà 14, lett. 4): «Se hai studiato molto i loro testi, il Santo, benedetto Egli sia, allontana lo yetzer harà’* da te». Perciò mi sono detto: forse, studiando questo libro, che è composto da tutte le parole dei primi Maestri su questo argomento e riflettendoci su, lo yetzer harà’ non dominerà così tanto questa trasgressione; e così, cominciando ad allontanarsi un po’ da questo peccato, col tempo se ne distoglierà del tutto, perché esso è dovuto per gran parte all’abitudine. «E chi vuole purificarsi, viene aiutato» (Talmud Bavli, Yoma 38b) e per questo merito «Verrà il redentore in Tziòn» (Isaia 59, 20) al più presto nei nostri giorni, Amèn.


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Note dei traduttori:
[1] Questi permessi prendono effetto solo in casi molto remoti: il lettore non si attenga a questo breve cenno, ma si riferisca al loro dettaglio.
[2] Anche qui, il lettore studi quali azioni siano incluse nel permesso di sospettare, e quali siano vietate.
[3] L’autore accenna a un’espressione del libro di Giobbe (38, 3 e 40,7): i nostri Maestri spiegano che essa significa farsi coraggio e mettersi intrepidamente e alacremente all’opera.
[4] Nell’ambito di questa traduzione ci siamo attenuti unicamente alla parte interna, cioè alla legge della maldicenza così come dev’essere applicata nella vita quotidiana. Lo studioso che volesse ricercare le fonti di ogni regola è invitato a consultare il Pozzo d’Acqua Vivente (Beer Màyim Chaìm) direttamente nell’originale in ebraico.
[5] Qui il termine chassidut va inteso come “al di là della legge”, ovvero una ricerca di meriti supplementari destinata solo ai più volonterosi. L’autore precisa quindi che il contenuto di queste regole è una mitzvà* obbligatoria per tutti gli ebrei.
[6] Si consulti la regola 9.
[7] Il Talmud descrive un esempio di lashon harà': dove può esserci un incendio, se non a casa di quel tale, dove ci sono tanta carne e pesce?
[8] Idolatria, adulterio e spargimento di sangue.
[9] I traduttori hanno trovato questo brano nel foglio 42a, anziché nel 42b.
[10] Si tratta di rabbi Yosèf Caro, che diede il nome di Kèsef Mishnè al suo ampio commento al Mishnè Torà di Rambàm.


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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
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