Il figlio saggio della Haggadà di Pesach, di Rav Abdallah Somekh - tratto dal Kibbutz Chakhamim



Un altro testo ebraico tradotto in italiano da Ralph Anzarouth per i lettori di 'Maestri della Torà';

BS"D


La Torà ha parlato di quattro [tipi di] figli: il saggio, il malvagio, il semplice e quello che non sa porre domande.
Così si esprime il [figlio] saggio: "Cosa significano le testimonianze, i decreti e le leggi che il Signore nostro D-o vi ha comandato?" E tu gli risponderai insegnandogli le regole di Pessach: non si può più mangiare dopo il Pessach Afikoman1.
[dalla Haggadà di Pessach]


Premessa del traduttore: l'autore di questo brano si chiede perché nella Haggadà questo figlio saggio ponga una domanda già posta nella Torà, la quale già fornisce anche la risposta. Che senso ha quindi aggiungere una risposta supplementare? Inoltre, perché la Haggadà suggerisce di rispondere al figlio saggio insegnandogli le regole del Pessach2? L'autore fornisce diverse spiegazioni a questi quesiti. Ecco la seconda spiegazione:

Oppure3, è possibile che la domanda del figlio saggio sia questa:
se è vero che è corretto manifestare la propria libertà4 quando c'è il Santo Tempio [di Gerusalemme] e gli Ebrei risiedono nella loro terra; si può gioire e cantare perché da schiavi di Faraone, Hashem ci ha fatti uscire [dall'Egitto] e condotti verso la libertà;
ma quando invece siamo ancora in questo lungo e amaro esilio, in cui ci mancano le forze per gioire, che importanza ha il fatto che siamo stati schiavi e [D-o] ci ha liberati? Infatti, ancora oggi siamo asserviti, e per questo [il figlio saggio] chiede: "Cosa significano le testimonianze, i decreti e le leggi che il Signore nostro D-o vi ha comandato?" Voi e i vostri padri siete oppressi da secoli di esilio: che senso hanno questi simboli di libertà, le lodi e i ringraziamenti per essere scampati alla mano di Faraone?


E gli fu risposto conformemente alla sua saggezza: "le regole di Pessach"; cioè, tutte quelle testimonianze, quei decreti e quelle leggi sono come le regole di Pessach: così come siamo sicuri che torneremo a offrire l'agnello di Pessach perché Hashem nostro Signore ha pietà di noi, così ci salverà ancora per darci una salvezza eterna. E questo è il senso di "non si può più mangiare dopo il Pessach Afikoman": si allude al fatto che anche se oggi non c'è più il Pessach5, ne rimane comunque il gusto, che è il segno del nostro prossimo ritorno all'offerta del Pessach. Ed è per questo che conserviamo il gusto del Pessach6: per indicare che dobbiamo essere sicuri che torneremo a offrire il Pessach e che Egli ci salverà. Questo è il motivo per cui facciamo tutto questo durante l'esilio: per rinforzare la fede nella Gheulà7, perché Egli tornerà a illuminare la nostra oscurità con una redenzione completa.

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Note del traduttore:
[1] Per capire come osservare questa regola, si consultino i libri di Halachà e non ci si limiti a quanto esposto in seguito, perché questo testo tratta di pensiero ebraico e non delle regole di comportamento insegnate dall'Ebraismo.
[2] Non dimentichi il lettore che Pesach non è solo il nome della festività, ma anche e soprattutto il nome dell'offerta di un agnello (il Pesach, appunto) che a questa festa è legata.
[3] Non si stupisca il lettore se il commento comincia così. Infatti, questa è la seconda spiegazione del testo citato e quindi viene proposto in alternativa alla prima spiegazione.
[4] Il Seder di Pesach, come è noto, contiene numerose manifestazioni di libertà, con la quale esprimiamo la nostra gioia per la fine della schiavitù in Egitto. Anche la prima offerta dell'agnello, poco prima dell'uscita dall'Egitto, fu un segno di libertà, poiché quello che gli Egizi consideravano una divinità poteva ormai essere trattato come un animale qualunque.
[5] Perché non c'è ancora il Santo Tempio di Gerusalemme.
[6] Qui bisogna forse ricordare la Halachà ad alcuni lettori: alla fine del Seder di Pesach mangiamo un ultimo pezzo di Matzà, il pane azzimo che abbiamo designato per essere l'Afikoman. Dopodiché, non si mangia più niente fino all'indomani per conservare il gusto della libertà, che esso rappresenta. Allo stesso modo, dice Rav Somekh, il Pesach che celebriamo noi in questa fine di esilio ci procura perlomeno il gusto della libertà di cui fruirono i nostri padri e che conosceremo presto anche noi, quando il Signore benedetto vorrà.
[7] La redenzione, che avverrà con la rivelazione del nostro giusto Messia, la ricostruzione del Santo Tempio di Gerusalemme e il ritorno da questo ultimo lunghissimo e amarissimo esilio.

Rav Abdallah Somekh fu un importantissimo Rosh Yeshivà a Bagdad e autore del libro Zivchey Tzedek sullo Shulchan Arukh (sezione Yoré Deà). Come confermato dall'autore nell'introduzione di quest'opera, Rabbi Abdal ben Avraham Yossef Yechezkel HaSomekh era anche un diretto discendente di Rav Nissim Somekh, anche lui Rosh Yeshivà nel territorio di Babilonia. Questo commento di Pesach è tratto da Kibbutz Chakhamim, raccolta di commenti alla Haggadà di Pesach, pubblicato per la prima volta 38 anni fa da un editore di Bené Berak a partire da un manoscritto. Purtroppo, il nome dell'editore non figura nell'unica copia che abbiamo reperito. Il testo originale di questo brano si trova a pagina 48 del Kibbutz Chakhamim, ringraziando come sempre l'impagabile sito HebrewBooks.org.


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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Kibbutz Chakhamim, Rav Abdallah Somekh, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth
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