Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim
Regola 10 - R. Israel Meir Hacohen Kagan


BS"D


Torna alla Regola 9


Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Regola 10


In questa Regola si spiegheranno alcuni dettagli della lashon harà’ riguardanti gli obblighi verso il prossimo. Cioè quando qualcuno ha commesso un’estorsione ai danni del prossimo, o lo ha imbrogliato; oppure se si è vittima di un’estorsione, di un raggiro o di un insulto - [si vedrà] in qual modo sia permesso rivelare la cosa ad altri. Essa include diciassette paragrafi.
Ricordiamo che nella Regola 4 abbiamo spiegato la normativa della
lashon harà’ riguardo agli obblighi verso D-o. Adesso ci accingiamo, con l'aiuto di Hashem, a spiegare la normativa della lashon harà’ applicata agli obblighi verso il prossimo, e l’abbiamo riportata qui in un capitolo separato perché essa è assai differente sotto molti aspetti. E cominciamo questo argomento, con l’aiuto di Colui che procura la conoscenza all’uomo.

10.1


Se si osserva una persona commettere un torto verso qualcuno, per esempio un’estorsione, una truffa o un danno, sia che la vittima lo sappia, sia che lo ignori; oppure, se la si è vista umiliare, affliggere o ingannare qualcun altro; e si è sicuri che la persona in questione non ha reso il maltolto né compensato il danno, né provato a farsi perdonare la colpa; anche colui che ha assistito a questo fatto come unico testimone è autorizzato a raccontarne i dettagli ad altri con lo scopo di aiutare la vittima e condannare pubblicamente le malvagità commesse. Però si dovrà fare attenzione che non manchino le sette condizioni elencate di seguito.


10.2


Ed esse sono:


  • Che si sia constatata la cosa di persona, anziché averla appresa da altri, a meno che non si sia accertato in seguito che la cosa è vera.

  • Che si abbia molta cura di non decidere subito dentro di sé che si tratta di un’estorsione, una truffa, un danno e via di seguito; piuttosto, si rifletta profondamente sul fatto in sé, [valutando] se la Legge lo considera veramente un’estorsione o un danno.

  • Che si sia rimproverato dapprima il peccatore con un linguaggio pacato nell’eventualità che lo si possa aiutare, inducendolo così a migliorare il proprio comportamento. E se questi non lo dovesse ascoltare, allora si divulgherà pubblicamente la colpa di questo peccatore, ovvero il torto che ha causato al prossimo. E verrà spiegato più avanti nel par. 7, se D-o vorrà, come comportarsi qualora si sappia in anticipo che costui non accetterebbe il suo rimprovero.

  • Che non si ingigantisca il torto oltre la sua reale portata.

  • Che si abbia l’intenzione di agire a fin di bene, come verrà spiegato più avanti nel par. 4, e non di trarre profitto, che D-o ce ne guardi, da quella macchia inflitta al prossimo; e che non si sia spinti dall’astio che già in precedenza si provava per lui.

  • Se si può trovare una soluzione alternativa per ottenere lo stesso beneficio, senza ricorrere alla maldicenza nei confronti di quell’individuo, allora è vietato raccontare in qualunque modo.

  • Che la persona in questione non subisca, come conseguenza della denuncia, più danni di quanti ne subirebbe se si testimoniasse contro di lei in un bet din* per questo fatto, e si consulti la spiegazione di questo punto più avanti, nelle Leggi della rekhilut, Regola 9, perché quello è il suo posto1.

10.3


E tutto ciò vale se l’osservatore è più onesto di quell’altro individuo. Ma se anch’egli è un peccatore come lui, e anch’egli commette quelle trasgressioni alla sua stessa stregua, allora [gli] è vietato renderle pubbliche. Infatti, una persona di questo genere non rivela le [malversazioni] segrete di quell’altro per diffondere bene e rispetto , ma piuttosto per provare in questo modo una cinica soddisfazione e umiliarlo. E già si è detto a questo proposito (Osea 1, 4): «E chiederò conto del sangue di Yizreèl alla dinastia di Yehù»: ecco che malgrado Yehù abbia compiuto una mitzvà eliminando la dinastia di Achàv nella [città di] Yizreèl, perché quello fu l’ordine che gli fu dato da un profeta, e per questo motivo gli fu concesso di regnare per quattro generazioni, com’è detto (Re II 10, 30): «Poiché hai pensato bene di eseguire ciò che ritengo giusto e hai fatto tutto ciò che desideravo alla dinastia di Achàv, [per questo motivo] quattro generazioni dei tuoi discendenti siederanno sul trono del regno d’Israele»; malgrado ciò, alla fine, Yehù fu punito per il sangue di Achàv, perché anch’egli commetteva molti crimini.


10.4


La quinta condizione esposta in precedenza, e cioè agire a fin di bene, implica, come spiegheremo, non soltanto che è giusto discutere il caso in questione con persone che potrebbero soccorrere la persona derubata, truffata, danneggiata o umiliata; ma perfino se questo beneficio non potrà essere ottenuto in virtù della divulgazione [dei fatti], e si ha soltanto l’intenzione di allontanare altre persone dalla cattiva strada, allorché esse apprendono che la gente condanna gli atti perversi; e forse in questo modo anche il peccatore si distoglierà dalla cattiva strada e correggerà il suo comportamento quando saprà che gli altri lo criticano per questo motivo – anche in questo caso non si tratta di lashon harà’ ed è considerato agire a fin di bene, poiché in ogni caso non si ha intenzione di trarre profitto dalla critica che si sta facendo nei confronti del prossimo, ma solo di perseguire la verità – e forse in questo modo ne deriverà un vantaggio futuro.


[E questa procedura è permessa solo nel caso in cui la persona derubata, truffata o danneggiata sia già venuta a conoscenza dei fatti; ma se quella [persona] non ne sa ancora nulla, sembra [di poter dire] che non se ne possa parlare a terzi, così come verrà spiegato più avanti nelle Leggi della rekhilut a nome dei poskìm*, perché il divieto di rekhilut è in vigore perfino qualora si racconti ciò che una persona ha detto o fatto nei confronti di un’altra, [e ciò è vietato] affinché la cosa non giunga all’orecchio dell’individuo coinvolto – “il tuo amico ha un altro amico” [cioè, le voci circolano] – e [la scoperta dei fatti] susciterebbe odio in cuor suo - si consulti il Pozzo d’Acqua Vivente.]

Se però si prevede con certezza che non si otterrà alcun beneficio, per esempio nel caso in cui anche le persone a cui si racconta sono dei malfattori, e essi stessi hanno commesso a più riprese una simile malefatta verso il prossimo, e non la considerano per niente un peccato – [allora] bisogna stare attenti a non raccontare alcunché di questo genere a persone di tal risma, poiché oltre a non produrre alcuna utilità col racconto, si rischia anche di provocare un grosso guaio, perché quei [malfattori] andranno a raccontarlo a loro volta all’autore dell’estorsione, della truffa o dell’umiliazione, trasgredendo così il divieto di (Levitico 19, 16) «Non commettere delazione tra il tuo popolo». E spesso molti gravi litigi maturano in queste circostanze; e in particolare, se esiste il rischio di generare maldicenza, perfino se tutte le condizioni [di cui sopra] sono rispettate, ciò non ostante è vietato divulgare alcunché.


E si sappia che riguardo a tutte le condizioni di cui sopra, non fa differenza se la persona derubata, danneggiata o umiliata abbia chiesto o meno a qualcun altro di reclamare [un risarcimento] per il pregiudizio o l’umiliazione subìti. Perché le circostanze in cui è permesso [divulgare i fatti] includono anche il caso in cui non c’è stata richiesta [di aiuto]. E nelle circostanze in cui è vietato, cioè quando le condizioni di cui sopra non sono rispettate, perfino se c’è stata richiesta, e perfino se si tratta di un suo parente, non fa differenza e la cosa rimane vietata. Alcuni cadono spesso in errore quando vengono a sapere che è stato fatto qualcosa a un loro parente: anche se non sanno con certezza se la cosa sia vera e quale ne sia l’origine, [ciononostante] vanno subito a vendicare [l’affronto] pensando così di mettere in pratica il precetto di (Isaia 58, 7): «Non ignorare i tuoi consanguinei». E costoro commettono un grave errore, perché le norme di cui sopra non distinguono tra parenti ed estranei, e [certamente] il precetto di «Non ignorare i tuoi consanguinei» non è stato dato per trasgredire un divieto, che D-o ce ne guardi.


10.5


E quando qualcuno profferisce lashon harà’ sugli altri, anche questo è un peccato verso il prossimo e perciò, se sussistono tutte le condizioni esposte in precedenza, è permesso divulgare il grave torto di quel maldicente. E tutto ciò vale soltanto se la vittima della maldicenza ne è già al corrente. Ma se la cosa non è ancora nota, è vietato raccontarla anche a terzi, perché “il tuo amico ha un altro amico” [ovvero, le voci circolano], e giocoforza la vittima stessa lo verrà a sapere, e questo sarebbe come commettere rekhilut, come si spiegherà con l’aiuto di D-o nelle Leggi della rekhilut. E, a maggior ragione, è vietato rivelare la cosa direttamente alla vittima stessa della maldicenza, anche se l’intenzione fosse di onorare la verità, perché questa sarebbe rekhilut vera e propria, perfino se una delle persone più vili sbeffeggia uno dei grandi del popolo ebraico, e perfino se questi fosse il proprio padre o il proprio rav.


10.6


E a volte è permesso raccontare ad altri un fatto anche se la persona coinvolta non ne è ancora al corrente: quando si prevede che la persona ne ricaverà un chiaro beneficio, e qualora anche le condizioni di cui sopra non sono assenti - si consulti il Pozzo d’Acqua Vivente. E verrà ora spiegato ciò che si intende per beneficio, affinché il lettore non erri a questo riguardo: per esempio, quando si conosce la natura del delatore, e si capisce dal contenuto della maldicenza che, così come ha sparlato davanti a noi, continuerà a farlo anche davanti ad altri; e in particolare, come già spiegato riguardo all’obbligo iniziale di rimproverarlo, se lo si fosse redarguito senza che abbia accettato il rimprovero. Ed è noto, a causa delle nostre molte colpe, che quasi tutti pecchiamo di lashon harà’, e in particolare accettiamo la lashon harà’, e quindi [anche] la sua maldicenza verrà probabilmente accettata [dagli altri], e sarà difficile poi cancellare quelle chiacchiere dai loro cuori, perché nelle dispute si dà ragione a [chi argomenta per] primo. Perciò è una cosa giusta rivolgersi per primo a quegli altri, esporre loro la grave colpa di quel maldicente, e raccontare loro che costui critica quell’altro senza motivo e senza che questi abbia alcuna colpa. Così facendo, quando il maldicente racconterà loro [quella maldicenza], essa non sarà accettata, e anzi verrà da loro rimproverato. E certamente quando vedrà che le sue [male] parole non sono accolte e anzi gli procurano infamia e disonore, se ne asterrà in futuro. Ed in questo modo è senz’altro permesso, perché così si salva la persona coinvolta dal dolore e dalla vergogna, e [si salvano altresì] sia il maldicente che chi lo ascolta dalle pene del ghehinom*, e per di più, così facendo, si compie il precetto positivo di rimproverare.


10.7


Ed ora si spiegherà le terza condizione tra quelle esposte al par. 2, e cioè che bisogna dapprima rimproverare [il maldicente]. Ciò [è certamente valido] nel caso generale, ma se si sa con certezza che il rimprovero non susciterà in lui alcun rimorso e che non lo accetterà, non c’è bisogno di redarguirlo; ci si curi soltanto di raccontare la cosa davanti a tre persone per la ragione seguente: se la si racconta [solamente] davanti a una o due persone, potrebbe sembrare che si abbia l’intenzione di evitare che la cosa giunga all’orecchio del maldicente, e quindi che si cerchi di lusingarlo e ingannarlo, che lo si critichi di soppiatto e che ci si compiaccia nel raccontare una maldicenza su qualcun altro. Un’altra ragione è che potrebbero sospettare che la cosa sia proprio falsa, e che la si sia inventata di sana pianta, perché se fosse vera, [ci si potrebbe chiedere] per quale motivo non si abbia dapprima rivelato il peccato al [maldicente stesso]. E in questo caso [e cioè nel caso in cui si racconti solamente a una o due persone] il racconto non produrrebbe nessuno dei benefici esposti in precedenza nel par. 4. Perciò bisogna raccontare la cosa assicurandone la diffusione, ovvero davanti a tre persone, il che è come raccontarla davanti all’individuo stesso, e in questo modo non si verrà sospettati, perché non accade di frequente che una persona dabbene racconti in pubblico una cosa del tutto menzognera. E malgrado anche in questo caso sia vietato a chi ascolta di credere completamente a ciò che gli viene raccontato, e disprezzare quel tale in cuor suo, come spiegato in precedenza nella Regola 6.1, per cui anche se la cosa non è del tutto menzognera, può darsi che manchi un dettaglio nella storia che la trasformerebbe completamente, e pertanto è vietato basarsi sul racconto così com’è per esecrarlo completamente – ciononostante la cosa entrerà nelle sue orecchie convincendolo a indagare se la cosa è veritiera, e a rimproverare l’individuo di cui si raccontano brutte cose, ed è possible che costui prenda in considerazione le sue parole; e [potrebbero derivarne] anche altri vantaggi, come esposto in precedenza al par. 4, si consulti colà.


10.8


Questo vale quando non si ha paura della persona di cui si parla, ma se la si teme per via dei danni che potrebbe arrecare [a chi ne rivelasse le malefatte], può darsi che questa circostanza rappresenti un’attenuante e che si possa raccontare il male che costui ha fatto al prossimo anche allorquando non ci si trovi davanti a tre persone.


10.9


E se è generalmente noto che la persona che rivela [quelle malefatte] non guarda in faccia a nessuno, che direbbe anche davanti al diretto interessato tutto ciò che dice in sua assenza, non ha timore di nessuno ed è ritenuta una persona che dice soltanto la verità, allora, quando l’interessato non accetterebbe alcun rimprovero, può rivelare ad altri il male che costui ha commesso verso il prossimo perfino davanti a meno di tre persone, perché una persona così non sarà sospettata da chi l’ascolta di essere un adulatore o un bugiardo, anzi, [si capirà] che è motivata dallo zelo della verità, [dalla volontà] di aiutare la vittima, e di condannare in pubblico gli atti malvagi. Ma bisogna prestare molta attenzione, riguardo a questo argomento e a quanto esposto nel par. 8, che nel caso in questione non venga a mancare nessuna delle condizioni elencate all’inizio del capitolo, perché [la presente deroga] rende caduco soltanto [l’obbligo di raccontare la cosa] davanti a tre persone.


10.10


E si sappia che la norma riguardante il raccontare la lashon harà’ su un peccato commesso verso il prossimo è uguale a quella riguardante il raccontare la lashon harà’ su un peccato commesso verso D-o. Tuttavia è vietato rivelare ad altri un peccato commesso verso D-o anche qualora fossero rispettate tutte le condizioni esposte al par. 2, a meno che si osservi che [il peccatore] insiste a ripetere volontariamente il peccato a più riprese, e che si tratti di un atto il cui divieto è noto a tutti, e si consulti la Regola 4.7, in cui si è già discusso questo caso in tutti i dettagli.


10.11


E quanto bisogna stare attenti a non permettersi di raccontare ad altri di aver avuto a che fare con un certo individuo e di essere stati da lui derubati o truffati in questo modo e in quest’altro, o di essere stati da lui offesi, tormentati o umiliati e via di seguito! E [questo vale] perfino se si è sicuri di non mentire raccontando questa storia (con l’eccezione che verrà spiegata più avanti nel par. 13), e perfino se si riscontrano tutte le condizioni esposte in precedenza – poiché l’intenzione del racconto non è certamente quella di portare un beneficio, cioè criticare quel tale affinché tutti aborriscano i malfattori e si astengano quindi dal seguire il loro pessimo esempio, o di far sì che [il malfattore] si accorga che tutti lo disapprovano, e che magari in questo modo si distolga dalla cattiva strada – anzi, l’intenzione [della persona danneggiata] è di mortificarlo agli occhi del pubblico, affinché sia esposto a tutti con onta e disdoro per aver recato danno ai suoi beni o al suo onore; e più vedrà che le sue parole saranno ascoltate, e che [quel tale] sarà criticato e disprezzato per questo motivo, più sarà contento e si compiacerà.


10.12


E ciò vale, a maggior ragione, quando [quell'altro] non gli ha arrecato alcun danno, e gli ha soltanto negato dei favori che invece avrebbe meritato di ottenere, come un prestito, tzedakà*, ospitalità e cose di questo tipo. Se poi per questo motivo si va a rivelare questa cosa a terzi per biasimare l’altro, allora si tratta di lashon harà’ vera e propria, come si è descritto in precedenza nella Regola 5.1. E si trasgrediscono in questo modo altri divieti oltre a quello della lashon harà’, come spiegato nella Regola di cui sopra.


E molte persone, a causa delle nostre molte colpe, cadono in questo [errore], come si può osservare chiaramente; ché se una persona non viene accolta in una località con la calorosa accoglienza che desidera, per questo motivo, quando poi si recherà in un’altra città, divulgherà la critica rivolta alle persone importanti della località precedente perché non lo hanno aiutato nelle sue faccende. E, a maggior ragione, se per questo motivo egli criticasse genericamente tutta la città, certamente si tratterebbe di un’offesa criminale, perché il divieto di lashon harà’ di cui abbiamo parlato, pure quando si tratta di verità, sussiste anche quando si parla di un individuo in particolare, e, a maggior ragione, è certamente un peccato criminale qualora si tratti di un’intera città di ebrei che coltivano la fede nel Signore.


10.13


E malgrado ciò, mi pare che se si prevede che, raccontando il modo in cui un tale ha causato un pregiudizio (pecuniario o simile), si otterrà un beneficio futuro2, per esempio raccontando [i fatti] a persone che hanno influenza su quell’individuo quando lo rimproverano, e forse in questo modo restituirà il maltolto o [risarcirà] il danno e così via – [in questo caso] è permesso esporre loro [la situazione] e chiedere il loro intervento a questo riguardo. E a volte si può ricavare un beneficio futuro da questo racconto, perfino in casi che non riguardano [divergenze] economiche (bensì dissidi incentrati su danni morali quali il dolore, la vergogna, l’inganno e così via), per esempio: se qualcuno sa con certezza che un’altra persona vuole offenderlo e umiliarlo per un qualunque motivo, e [sa] che se raccontasse questa cosa a persone importanti o vicine a quel tale, e provasse loro che la questione è reale, e questi si rendessero conto che ha ragione – [allora] forse impedirebbero a quell’altro di concretizzare il suo piano; o perfino se la cosa è già successa, che egli sia già stato offeso, ma ritiene che se non raccontasse la cosa a persone importanti o vicine a quel tale affinché gli impediscano di agire, costui tornerebbe a offenderlo e umiliarlo in tutti quei modi e in quelli simili, è permesso raccontare la cosa ad altri, e ciò, malgrado il fatto che con questo racconto si svergogna quell’altro davanti a chi lo ascolta. [E ciò è permesso] perché non è questa l’intenzione, bensì quella di difendersi da eventuali danni futuri, in termini economici o di dolore e vergogna.


10.14


Ma ciò a cui bisogna prestare molta attenzione in questa deroga è che non vengano a mancare tutte le condizioni esposte in precedenza all’inizio di questa Regola perché, se non si mantiene una stretta sorveglianza, con questa deroga si potrebbe facilmente incorrere nella trappola [tesa] dallo yetzer* e rendersi colpevoli di lashon harà’ secondo la Torà. E per questo motivo ripeteremo ora esplicitamente tutte le suddette condizioni un po’ più in dettaglio. La regola generale, in breve, è che una volta che si sa che quell’altra persona non ha abbandonato la propria idea esposta in precedenza, e qualora si avesse l’intenzione di agire a fin di bene, come spiegato, allora è permesso raccontare, a condizione che non manchino le seguenti condizioni:


  • Prima condizione: Che si sia osservata la cosa di persona e non appresa da altri; giacché, se anche si fosse veramente subìto un danno personale, chissà se quell’altro ne è veramente l’autore?

  • Seconda condizione: Che si presti molta attenzione a non dichiarare immediatamente che si tratta di un’estorsione, di un danno, di un inganno o di un’umiliazione e così via; che si rifletta attentamente fin dall’inizio secondo i criteri della Torà verificando se si ha ragione, e se il rivale è [veramente] l’autore dell’estorsione, del danno, dell’umiliazione e via di seguito. E questa condizione è quasi la più difficile da verificare, perché nessuno ha la tendenza ad autoattribuirsi delle colpe, e ogni azione appare corretta al suo autore. E se si cade in fallo su questa condizione si diventa automaticamente un motzì shem ra’, ovvero un diffamatore, la cui trasgressione è ancora più grave di quella della lashon harà’.

  • Terza condizione: Se si suppone che possa essere utile discutere di persona con l’individuo in questione, è necessario parlare con lui prima di divulgare la cosa a terzi.

  • Quarta condizione: Che in ogni caso si ponga estrema attenzione a far corrispondere tutto il racconto alla verità, senza alcun elemento menzognero, e a non ingigantire la vicenda oltre la sua reale portata, e cioè senza omettere dalla descrizione alcun dettaglio, [per quanto] modesto, che sembri favorire l’avversario, anche se in realtà non basterebbe a giustificarlo, ma comunque potrebbe indurre gli ascoltatori che ne venissero a conoscenza a moderare la loro disapprovazione nei suoi confronti. E [siccome] nascondendo questo dettaglio [l’opponente] verrebbe disapprovato profondamente dagli ascoltatori – è quindi vietatissimo ometterlo. La norma generale è che non si ingigantisca la colpa oltre la sua reale portata, perché altrimenti si commette maldicenza e si trasgrediscono diversi divieti elencati nell’introduzione, si consulti colà.

  • Quinta condizione: Che si abbia intenzione di arrecare un beneficio,
    [E può darsi che, anche allorquando lo scopo del racconto sia quello di diminuire l’angoscia che si prova, perfino questo caso sia come quello in cui si ha l’intenzione di produrre un beneficio futuro (e perciò quanto detto dai nostri Maestri nel Talmud Bavli, Yoma 75a: «Si confidi ad altri l’angoscia del cuore» si applica anche a questa situazione), ma bisogna prestare attenzione a non trascurare le altre condizioni esposte in questo paragrafo.]

    che è il perno su cui ruota l’integralità di questa deroga, [come] descritto nel par. 13.

  • Sesta condizione: Se si può ottenere questo [stesso] beneficio attraverso una via alternativa che non richieda di sparlare di quell'altro, allora è vietato raccontare [i fatti] sotto qualunque forma; e perfino se si è costretti a raccontare, ma c’è la possibilità di smorzare il misfatto in maniera che quell’altro non sia troppo esecrato dagli ascoltatori, senza con questo sminuire il beneficio che si cerca di ottenere con questo racconto, [in questo caso] è mitzvà* di ridimensionarlo senza rivelare tutta la scelleratezza dell’altro a chi ascolta, perché in ogni caso il risultato è conseguito.

  • Settima condizione: Che col proprio racconto non si provochi all’altro un danno superiore a quello che avrebbe subìto se si fosse testimoniato contro di lui davanti al bet din* negli stessi termini.

10.15


E ora veda il lettore, quanto sia necessario soppesare intensamente il modo in cui si racconta, perché durante il racconto si incorre nel grave pericolo [di trasgredire] il divieto di lashon harà’ qualora non si mantenga alta la guardia rispetto a tutte le condizioni, e in particolare rispetto alla seconda e alla quarta, ed è chiaro che a questo proposito si può dire che «La vita e la morte dipendono dalla lingua» (Proverbi 18, 21). E se, prima di cominciare a parlare in un caso di questo tipo, non si ha la cura, di riflettere al modo in cui si intende rivelare questa faccenda con la propria bocca, si sbaglierà certamente, che D-o ce ne guardi, perché al momento di agire la forza dell’ira ha il sopravvento sull’essere umano, e ciò è inevitabile. Perciò, prima di parlare, bisogna esaminare molto attentamente il modo in cui ci si esprimerà con la propria bocca, per non ingigantire la colpa al di là della sua reale portata, e avere l’intenzione [di agire] a fin di bene, come esposto in precedenza al par. 13.


10.16


E da tutto ciò che si è esposto finora si può constatare la gravità dell’errore in cui la gente incorre regolarmente, e cioè: quando qualcuno dice lashon harà’ e critica un altro in sua assenza, e gli si domanda: “Perché dici lashon harà’ su di lui?” Subito quello risponderà: “Perché anche lui ha sparlato di me con quelli là!” E questo è un grave errore per diversi motivi: il primo è che è vietato credere al delatore che gli ha raccontato questa cosa, perché significherebbe accettare la rekhilut, come si è già spiegato a più riprese - e come potrebbe essere permesso andare a sparlare di lui con questo pretesto? E poi, se anche fosse vero che quell’altro ha sparlato di lui, rimane valido il divieto di dire lashon harà’ nei suoi confronti, come spiegato in precedenza nel par. 143.


10.17


Se è stata commessa un’azione scorretta, e Reuvèn chiede a Shimon: “Chi l’ha fatto?” Perfino se Shimon capisce che Reuvèn lo sospetta [di esserne l’autore], gli è vietato rivelare chi l’ha commessa, [e ciò] perfino se ha visto di persona [il colpevole]. Potrà solo rispondere: “io non ho commesso quest’azione” (a meno che non si tratti di qualcosa che si ha l’obbligo di riferire anche senza riceverne la richiesta e anche se non si è per nulla sospettati; per esempio, se si tratta di un precetto verso il prossimo, e sono verificate tutte le condizioni esposte in questa Regola– oppure se si tratta di un precetto verso D-o, e sussistono tutte le condizioni elencate in precedenza nella Regola 4, par. 5, 7, e 8, si consulti colà). E tutto ciò che si è esposto è la norma [in senso stretto], ma è preferibile che la persona sensibile adotti un comportamento più benevolo della norma, e che non si defili allorché potrebbe capitare che Reuvèn scopra l’autore del fatto, cosa che provocherebbe l’imbarazzo di quest’ultimo. E nel Talmud Bavli, Sanhedrin 11a, si trovano [comportamenti] ancora migliori: in cui diversi tannaìm* si addossano la colpa affinché non si venga a sapere chi è il [vero] colpevole. E ciò si riscontra anche nel Sèfer Chassidìm (par. 22): «Se ci si trova in mezzo a un gruppo di persone ed è stata commessa un’azione scorretta, e non si scopre chi è il colpevole, bisogna dichiarare ‘sono io il colpevole’, anche se non si è responsabili del misfatto ecc.», si consulti colà.


Si conclude qui il primo volume del libro Chafètz Chaìm.


_________________________
Note:
[1] È forse il caso di ricordare che questo testo fa parte del Chafètz Chaìm, una trilogia che comprende: (I) Leggi della lashon harà’, (II) Leggi della rekhilut e (III) Shemirat halashon. È al secondo volume, il cui titolo si potrebbe tradurre come Leggi della delazione che si riferisce l’Autore in questo richiamo.
[2] Pozzo d’Acqua Vivente: E, a maggior ragione, se il torto non è ancora stato commesso e se in virtù del racconto aumentano le possibilità di evitare che il pericolo si concretizzi, è permesso raccontare e chiedere di intervenire in maniera che questo non avvenga.
[3] Pozzo d’Acqua Vivente: perché certamente non si ha l’intenzione di agire a fin di bene, bensì di sparlare del prossimo.


--------------------------------------------------------------------------------------

Cheshvan 5769. Tutti i diritti sono riservati. Per saperne di più sul Copyright
Chiunque volesse citare, riprodurre o comunicare al pubblico in ogni forma e con qualunque mezzo (siti Internet, forum, pubblicazioni varie ecc.) parti del materiale di questo sito, nei limiti previsti dalla legge, è tenuto a riportare integralmente una dicitura, che per questa pagina è:

Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
Si richiede di aggiungere anche un link verso:
http://www.anzarouth.com/2008/11/leggi-maldicenza-indice.html
--------------------------------------------------------------------------------------