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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
Lashon Harà: Regola 3
In questa Regola si spiegherà che nella lashon harà’ non c’è differenza se sia fatta o meno in presenza della persona che ne è oggetto. Ed è vietata perfino per scherzo e perfino quando non si esplicita l’identità della persona di cui si parla; e altri dettagli. Essa conta otto paragrafi.
3.1
Quant’è grande il divieto di lashon harà’! Ché la Torà l’ha vietata perfino su asserzioni veritiere ed in ogni frangente; difatti, è evidente che se si fa attenzione a parlare dell’altro di nascosto, cercando di non essere scoperti, è vietato, perché in questo modo [colui che parla] si procura anche una maledizione, come è scritto (Deuteronomio 27, 24): «Maledetto chi colpisce il prossimo di nascosto»; ma perfino se si ritiene che avrebbe detto la stessa cosa anche in sua presenza, o se dice effettivamente lashon harà’ davanti a lui, anche in questo caso è vietato, ed è lashon harà’. E c’è pure un aspetto per il quale è più grave dirla in sua presenza piuttosto che in sua assenza: perché [dicendola] in sua presenza, oltre al divieto di lashon harà’, ci si comporta anche con impudenza e sfacciataggine, e così facendo si provocano ulteriori litigi e molto spesso anche l’umiliazione [di chi la subisce], come abbiamo spiegato a lungo nell’introduzione, nel precetto negativo «Non ti rendere colpevole nei suoi confronti», si consulti colà.
3.2
E il permesso che si riscontra talvolta nei testi dei nostri Maestri, riguardo ai casi in cui non si sarebbe astenuto dal profferire quei propositi anche davanti al diretto interessato – questo permesso concerne soltanto la polvere di lashon harà’, cioè quando il suo proposito può essere interpretato in due modi, uno dei quali non comporta niente di biasimevole. E si sa che un’affermazione di questo tipo dipende dall’intenzione di chi parla e dal modo in cui la dice, che se vuole la esprime con voce e gesti molto benevoli, in modo da non lasciar trasparire alcun rimprovero di quell’altro, oppure la esprime in modo che l’ascoltatore capisca che la sua intenzione è invece volta al biasimo. Ed è difficile riconoscere un caso di questo genere. Quindi i nostri Maestri hanno detto che se i gesti che accompagnano la sua affermazione sono tali che non ci si vergognerebbe di parlare [così] anche in presenza del diretto interessato, in questo caso è chiaro che non ha l’intenzione di criticare e quindi è permesso; ma se è chiaro dai suoi gesti che abbia intenzione di criticare, e la natura umana fa sì che ci si vergogni di parlare così in sua presenza – benché tutto il discorso in sé, anche qualora venisse inteso nel senso del rimprovero, sia soltanto polvere di lashon harà’, e corrisponda al vero, e chi lo pronuncia sa che lo farebbe anche in presenza dell’interessato – perfino così è vietato.
3.3
E si noti ancora quant’è grande il divieto di lashon harà’, che perfino se non si parla spinti dall’astio, e parlando di qualcuno non si intenda biasimarlo, e anzi si parla solo per scherzo e per frivolezza – ciononostante, poiché in verità trattasi di parole di biasimo, tutto questo è vietato dalla Torà.
3.4
Il divieto di dire lashon harà’ include perfino il caso in cui si racconta senza rivelare l’identità della persona in questione, e se ne parla in modo velato e dal contenuto del discorso l’ascoltatore capisca di chi l’altro stia parlando – anche questa è lashon harà’. E ben più: perfino se tra la cose raccontate non ci fosse alcun contenuto negativo, ma a causa di questo racconto ne sia scaturito un effetto negativo o un biasimo, e questa fosse la subdola intenzione di colui che ha raccontato – anche questa è lashon harà’; e i nostri Maestri la chiamano “lashon harà’ occulta”.
3.5
E i maldicenti usano molti altri modi di raccontare in modo fraudolento: ne parlano in modo ingenuo, come se non sapessero che ciò che hanno detto sia lashon harà’, o che questi siano gli atti di quella tale persona, tutti questi [metodi] e simili sono inclusi nella lashon harà’.
3.6
E si sappia, che perfino se non succede niente di male a quella persona, per esempio se gli astanti non ci hanno creduto e così via, ciononostante la cosa non esce dall’ambito della lashon harà’, e necessita espiazione. E ancor di più, perfino se prevede fin dall’inizio che non succederà niente di male a quella persona a causa del suo racconto, ciononostante gli è vietato parlare in suo sfavore.
3.7
E si sappia ancora una regola importante, ed è la principale di questa materia: se Tizio osserva che Caio dice una cosa o compie un’azione, sia riguardo agli obblighi verso il Creatore, sia riguardo agli obblighi verso il prossimo, e bisogna giudicare la sua parola e la sua azione benevolmente e favorevolmente – se Caio è una persona che ha timore di D-o, bisogna giudicarlo favorevolmente perfino quando la situazione appare più vicina alla colpevolezza; e se si tratta di una persona comune, un benonì*, di quelle che si guardano dal peccato e a volte ci cascano, se [la situazione è tale che] il dubbio è in equilibrio, bisogna far pendere la bilancia verso il giudizio favorevole, come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Shabbat 127b): «Chi giudica il prossimo favorevolmente, verrà giudicato da D-o favorevolmente», e ciò secondo la parola di D-o benedetto (Levitico 19, 15): «Giudica il prossimo con benevolenza»1. E perfino quando il caso in questione penda più a [suo] sfavore, è ben più giusto lasciare la cosa nel dubbio e non considerarlo colpevole. E quando il caso in questione pende più a favore, e certamente secondo la Legge è vietato considerarlo colpevole, chi lo giudica negativamente e per questo lo critica anche, trasgredisce non solo [il precetto] «Giudica il prossimo con benevolenza», ma anche il divieto di profferire lashon harà’.
3.8
E perfino nel caso in cui i segni di colpevolezza prevalgano, cioè quando, secondo i termini della Legge, giudicare negativamente è meno vietato – ciò [si limita] a un’opinione personale, con la quale si giudica che quell’altro si è comportato male, ma non ci si deve affrettare a umiliarlo presso altri, se non sussistono tutte le condizioni che vedremo più avanti, nelle Regole 4, 5 e 10, perché ci sono molti casi in cui è vietato umiliare perfino chi ha torto, come si spiegherà in quelle Regole.
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Nota dei traduttori:
[1] La traduzione letterale del versetto è «Giudica il prossimo con giustizia». Abbiamo invece tradotto col termine benevolenza seguendo l’indicazione dell’Autore che cita proprio questo versetto come prova della necessità di giudicare il prossimo favorevolmente. Essa ha solidissime e autorevoli radici nei testi dei Maestri, fin dal Talmud Bavli (Shevuot 30a), Torat Kohanìm (Kedoshìm 4,4) e il Midrash* Yalkùt Shimoni (Kedoshìm 511), ripresi fedelmente da Rashi e da numerosi altri commentatori; essa ha perfino trovato posto nella Halakhà, essendo stata inserita nella lista delle 613 mitzvòt* da Rambam e da altri poskim*. L’Autore spiega questa scelta nel Pozzo d’Acqua Vivente, che riportiamo qui di seguito. Si ringrazia il rav Della Rocca per avere ispirato questa precisazione, e anche per le altre puntuali osservazioni e il prezioso incoraggiamento.
Pozzo d’Acqua Vivente: Rabbenu Yona scrive:«È un precetto positivo della Torà, perché è scritto “Giudica il prossimo con benevolenza”». E la nostra interpretazione si basa sul Samàg (Precetti Positivi, 106) e il Samàk, secondo i quali ciò fa parte della mitzvà «Giudica il prossimo con benevolenza». E pure Rambam ha scritto nel Sefer Hamitzvot (Precetti Positivi, 177) in questi termini: «E questa mitzvà esige anche di giudicare il prossimo con benevolenza, e di giudicare le sue parole e le sue azioni soltanto a [suo] favore». In ogni caso, secondo tutti [i poskìm*] è un obbligo assoluto e non [solamente] una virtù.
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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael BarkiSi richiede di aggiungere anche un link verso:
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