Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim
Regola 4 - R. Israel Meir Hacohen Kagan


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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Regola 4


In questa Regola si spiegherà il divieto della lashon harà’ riguardo a trasgressioni verso il Santo, benedetto Egli sia, e come riparare questo peccato. Essa conta dodici paragrafi.

4.1


È vietato raccontare di qualcuno - perfino qualora questi non fosse presente, e che [quanto detto] corrisponda a verità – una cosa di cui si sentirà umiliato. E non c’è bisogno di precisare questo [divieto] riguardo a propositi generici di biasimo, come il rievocare le azioni di suoi antenati o parenti, o le sue stesse azioni passate, sia che si tratti di atti [commessi] verso D-o, sia di quelli verso il prossimo; dal momento che oggi si comporta come si deve, è vietato biasimarlo per questo, ed è lashon harà’. Ma pure se lo si ha osservato da vicino, commettere da solo un atto improprio secondo la Legge che rappresenta un’infrazione verso D-o (mentre riguardo le infrazioni verso il prossimo ci sono vari casi, e li vedremo più avanti, se D-o vorrà, nella Regola 10), anche in questo caso è vietato parlarne malevolmente, perfino a sua insaputa, se non alle condizioni esposte più avanti al par. 7.


[Si sappia, che qui si parla di un ebreo qualunque, come si spiegherà più avanti al par. 3. Ma se è chiaro dal contesto che la causa del peccato sia da addebitarsi alla sua tendenza all’eresia, che D-o ce ne liberi, riguardo a un individuo di questa sorta non ci è stato imposto di «Non commettere delazione tra il tuo popolo», poiché egli non fa parte del “tuo prossimo”, e si vedranno nella Regola 8 i dettagli del caso riguardo a questo individuo.]

4.2


E non vi è differenza se si tratta palesemente di un precetto positivo o negativo della Torà, noto a tutti, perché certamente con il racconto [di questa trasgressione] sarà profondamente mortificato presso colui che ascolta; ma perfino se si tratta di un precetto cui molti ebrei non prestano attenzione, e non comporta un biasimo eccessivo, come: dire di uno che non vuole studiare la Torà, o che ha detto una menzogna (tranne quando sia utile rivelare questa menzogna, ed egli lo faccia solamente al fine di questa utilità, come spiegheremo più avanti alla Regola 10, par. 4), e casi di questo tipo, anche così è vietato, perché in ogni caso dalle sue parole traspare che quell’altro non rispetta la Torà. E perfino parlare di lui riguardo a derivazioni dei precetti, come ad esempio: [dire] che è avaro di soldi e che non onora lo shabbat come si deve [considerati i suoi mezzi], poiché questa cosa si riconduce al precetto positivo «Ricorda [il giorno dello shabbat]», e come è scritto nel Sèfer Charedìm [nell’edizione di Gerusalemme del 1988, cap. 13, lett. 2, e si consulti anche il cap. 14, lett. 2-3]. Oppure perfino riguardo a un detto rabbinico, col quale i nostri Maestri abbiano sentenziato che non bisogna compiere una certa azione a priori1, e qualcuno racconti, perfino in assenza del trasgressore e perfino quando la cosa sia vera, di averlo visto di persona compiere quell’azione, anche così è vietato.


4.3


Ma la questione si può ramificare in diversi casi, come spiegheremo: che se qualcuno è un benonì*, cioè un ebreo che in genere si astiene dal peccato, e pecca solo di rado, e bisogna ritenere che abbia peccato inavvertitamente, o che non era a conoscenza del divieto, o che pensava che [l’astensione] fosse soltanto un atto di zelo, una buona risoluzione, per cui [solo] i più devoti si astengono – allora, perfino se l’abbiamo visto trasgredire [il divieto] più volte, sicuramente bisogna accettare questa ipotesi, ed è vietato rivelarlo, affinché non venga svergognato in pubblico. E perfino [chi l’ha visto] non dovrà disprezzarlo, ed è vietato odiarlo per questo, perché bisogna giudicarlo benevolmente; e secondo molti poskìm* vale qui il precetto positivo della Torà «Giudica il prossimo con benevolenza» (Levitico 19, 15).


4.4


Ma se si nota che il peccatore era consapevole del divieto e ha commesso intenzionalmente un peccato come l’adulterio, il mangiare alimenti proibiti e divieti simili, la cui proibizione è nota a tutti gli ebrei, allora [la reazione] dipende da ciò che segue: se il peccatore è un benonì riguardo agli altri precetti, e in generale ha l’abitudine di astenersi dal peccato, e lo hanno visto solo una volta trasgredire quel divieto di nascosto, è vietato raccontare questa mancanza ad altri, perfino in sua assenza. E chi lo rivela si macchia di una colpa, perché forse quell’altro è già tornato sulla retta via, ed è triste e contrito per quel suo peccato, e D-o lo ha già perdonato, perché l’essenziale della teshuvà* dipende dall’afflizione del cuore; e allorquando si renderà pubblico questo peccato, costui sarà umiliato e mortificato davanti a tutti, pur dopo essersi già pentito in precedenza della sua mancanza e dopo che il suo peccato sia già perdonato, perciò il malvagio che lo riveli si macchia di una colpa e di un’abiezione. E non bisogna rivelarlo neppure ai giudici della città, nemmeno in compagnia di un secondo testimone che ne sottoscriva la testimonianza (perché altrimenti, in ogni caso è vietato rivelare, poiché ai giudici è vietato credere alle sue parole [in quanto testimone unico], e lo si considererà alla stregua di un maldicente, come descriveremo più avanti), perché non se ne ricava alcuna utilità. Bisogna solo rimproverarlo a quattr’occhi per essersi ribellato a D-o col suo peccato, e [incoraggiarlo] a guardarsi d’ora in avanti dalle motivazioni che lo hanno spinto a questo [errore], affinché non commetta più peccati. E chi lo rimprovera abbia premura di farlo con garbo, per non avvilirlo, come è scritto (Levitico 19, 17): «Rimprovera il prossimo e non ti rendere colpevole nei suoi confronti». E ciò vale pure se si tratta di un individuo benonì riguardo agli altri precetti, e, a maggior ragione, se si tratta di un talmìd chakhàm* che teme il peccato ma è stato vinto dallo yetzer*, nel qual caso rivelare il suo peccato è una grave colpa, ed è perfino vietato sospettarlo, perché ha certamente già fatto teshuvà. E perfino se il suo yetzer l’ha sconfitto una volta, in seguito il suo spirito ne rimane amareggiato e il suo cuore turbato, e teme molto per questa sua colpa, così come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Berakhot 19a): «Se hai visto un talmìd chakhàm commettere un peccato di notte, non lo sospettare di giorno, perché ha certamente già fatto teshuvà».


[E tutto ciò che abbiamo descritto in questi paragrafi si riferisce al caso in cui il racconto non serve ad allontanare un divieto, ma se serve ad allontanare un divieto come è [invece il caso] quando si vede una donna sposata commettere il peccato dell’adulterio, e secondo la Legge ciò la rende proibita a suo marito, perfino se l’ha vista un unico testimone – si deve rivelarlo al marito affinché si allontani dal divieto [di vivere con lei]. Questo, solo se la si è vista peccare di persona, rendendosi con l’adulterio legalmente vietata a suo marito; ma se lo si è sentito da altri2, e perciò secondo la Legge questa [testimonianza indiretta] non la renderebbe vietata a suo marito, così come in altre situazioni di questo tipo – è vietato raccontarlo. E perfino se la si è vista peccare di persona, lo si svelerà soltanto se si ritiene che il marito ci crederà come [se si trattasse di] due testimoni, e si allontanerà da lei; altrimenti, è vietato dirlo al marito e, a maggior ragione, a terzi.]

4.5


Ma se si nota che chi ha commesso quel peccato fa parte dei malvagi, dei buffoni, di quelli che odiano chi li redarguisce, come è scritto (Mishlè 9, 8): «Non rimproverare il buffone, affinché non ti odi!», e certamente i suoi rimproveri non saranno accettati, anzi è facile che quella gente ripeta le sue malefatte; e in tal caso può darsi che commetta nuovamente quel peccato – perciò è meglio raccontarlo ai giudici della città, affinché lo puniscano per il suo peccato e lo allontanino da una trasgressione futura. E sembra che sia anche preferibile [raccontarlo] ai parenti del peccatore, se si prevede che possano influenzarlo, si veda il Pozzo d’Acqua Vivente. E l’intenzione di chi racconta deve essere del tutto disinteressata e dettata dall’intento di compiere la volontà di D-o, anziché dall’odio verso quella persona per estranei motivi. E anche i giudici dovranno punire il peccatore con discrezione, e non lo umilieranno in pubblico, come è scritto (Levitico 19, 17): «Rimprovera il prossimo e non ti rendere colpevole nei suoi confronti». E tutto ciò quando l’hanno visto in due; ma se c’è un testimone unico, che si astenga dal raccontarlo, perché sarebbe una testimonianza gratuita, considerato che il bet din* non ne tiene conto, come è scritto (Deuteronomio 19, 15): «Non si ergerà un testimone unico contro una persona per alcun peccato e per alcun delitto», e verrebbe quindi considerato motzì shem ra’ (diffamatore). E i nostri Maestri hanno detto (Talmud Bavli, Pesachìm 113b): «Colui che testimonia da solo contro il prossimo riguardo a un peccato, verrà punito con la makàt mardùt».3 E i nostri Maestri hanno anche detto (ibid.): «D-o odia tre [tipi di persone]: e uno di loro è colui che vede una mancanza del prossimo e testimonia da solo contro di lui.» Però gli è permesso rivelare la cosa al suo rabbino o al suo confidente, se sa che essi gli crederanno come a due testimoni. E in base a ciò è permesso al rabbino di odiare quell’individuo e di allontanarsi da lui, finché non accerterà che costui ha abbandonato la cattiva strada. Ma è vietato al rabbino raccontarlo ad altri, perché questo caso non presenta alcun vantaggio rispetto a quello in cui lo vede personalmente, come abbiamo già esposto nel par. 4.


4.6


E mi sembra anche che, nel caso di un individuo abituato a ripetere le sue malefatte, perfino qualora il suo rabbino non fosse particolarmente discreto, e può essere che la cosa sarà risaputa a causa sua, ma [d’altra parte] è un uomo il cui rimprovero può convincere il peccatore a non ripetere il suo peccato, allora può darsi che sia permesso rivelarlo [a questo rabbino], poiché l’intenzione di chi lo rivela è di aiutare il peccatore e non di biasimarlo. E ora torniamo al caso di cui sopra: perfino se lo hanno visto in due commettere il peccato, ed è un individuo abituato a ripetere le sue malefatte, ciononostante è permesso parlarne solo coi giudici della città e non con altri; di fatto, noi l’abbiamo visto trasgredire una sola volta, e forse si è lasciato sopraffare dal suo yetzer e ha poi fatto teshuvà, sospirando amaramente a causa di questo [errore]. Pertanto il peccatore non è ancora escluso dalla categoria “prossimo tuo” a causa di ciò.


4.7


E tutte queste normative che abbiamo esposto riguardano precisamente l’individuo che ha l’abitudine di pentirsi dei suoi peccati; ma se si è esaminata la sua condotta e [constatato] che egli è privo di timore di D-o e si dirige sempre verso la direzione sbagliata – come chi si svincola dal giogo del regno di D-o; o chi non si cura di una trasgressione che tutto il popolo conosce; quindi, sia che la trasgressione che si vuole rivelare sia stata commessa più volte intenzionalmente dal peccatore, o che questi abbia commesso più volte deliberatamente una trasgressione nota a tutti, in ogni caso ciò dimostra che quell’individuo ha trasgredito un ordine divino non perché sopraffatto dal suo yetzer, anzi egli agisce con arroganza e non ha timore di D-o – pertanto è permesso svergognarlo e raccontarne le malefatte, sia in sua presenza che in sua assenza. E se ha fatto un’azione o pronunciato una frase che si possano interpretare sia in modo positivo che in modo negativo, bisogna giudicarlo negativamente, visto che si è dimostrato un malvagio indefesso nelle altre situazioni. E così hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Bava Metzia 59a): «[Il versetto] ‘Non danneggiatevi l’un l’altro’ (Levitico 25, 17) [significa che] non ingannerai a parole [quelli del] popolo che vivono con te secondo la Torà e i precetti». Ma colui che è indifferente alla parola di D-o, è permesso svergognarlo con le sue malefatte, divulgarne le perversità e disprezzarlo. E hanno anche detto nel Talmud Bavli (Yoma 86b): «Si smascherino i ruffiani per via della profanazione del nome di D-o».4 E, a maggior ragione, se l’ha rimproverato e quello non si è ravveduto, in questo caso è permesso smascherarlo per i suoi peccati e rivelarlo alla luce del sole e disprezzarlo finché non tornerà sulla retta via, come ha detto Rambam (Mishnè Torà, Leggi della Conoscenza, cap. 6, hal. 8). Però non bisogna dimenticare altri dettagli necessari a questo fine, come riportato nel Pozzo d’Acqua Vivente.


4.8


Quando il bet din* comunica a una persona un precetto positivo – che faccia parte degli obblighi verso D-o o verso il prossimo – e questi non vuole farlo a nessun costo, e non ha [nemmeno] una scusa per non compierlo, è permesso parlarne biasimevolmente e perfino segnare questa colpa nel libro della memoria per le generazioni future. Ma se questi risponde con una scusa la cui validità è conosciuta da lui solo perché dipende da sensazioni personali, la regola è questa: se capiamo che questa scusa è campata in aria, solo per allontanare [la questione] dai nostri pensieri, non dobbiamo credergli, e siamo autorizzati a parlarne con biasimo e anche a segnare [questa colpa], come abbiamo spiegato poc’anzi; ma se la cosa è in dubbio, è vietato parlarne biasimevolmente.


4.9


Torniamo ora all’argomento iniziale. Da ciò che abbiamo scritto all’inizio della Regola, apprendiamo che è vietato dire del male e raccontare i difetti del prossimo. Per esempio, che si è visto qualcuno riempirsi di orgoglio, o infuriarsi a torto, o altri vizi, ché questa è senz’altro una critica bella e buona. E anche se corrisponde al vero, chi sa se non abbia già fatto ammenda, e il suo cuore non sia amareggiato per via di questi spregevoli difetti? E perfino se si vede che è abituato a questi brutti difetti, e non se ne dispiace, malgrado ciò è vietato deriderlo, perché forse non è al corrente della gravità del divieto. La ragione è che possiamo davvero osservare molte persone, tra cui anche alcune devote alla Torà, che non considerano quegli spregevoli difetti come un divieto così importante, come invece si presentano veramente a chi li studia nei testi e nei discorsi dei nostri Maestri, ma soltanto come una cosa impropria; e forse anche questo trasgressore la pensa così, e se conoscesse la gravità dei divieti come [la conoscono] loro [cioè i suoi critici], può darsi che farebbe il massimo sforzo per non trasgredirli, come è scritto nel Talmud Bavli (Shabbat 69a): «Se si è commesso inavvertitamente un [peccato punibile con il] karèt, e si è trasgredito di proposito soltanto un precetto negativo [cioè un peccato semplice], il risultato [delle due componenti di questa azione è [soltanto] un peccato involontario». Al contrario, quando si vede qualcuno abituato ai brutti difetti di cui sopra, bisogna rimproverarlo e informarlo della gravità dei divieti corrispondenti, e in questo modo adempierà al precetto positivo (Levitico 19, 17) «Rimprovera il prossimo», e forse questi ammetterà di essere nel torto. Ma per ora, egli crede di essere nel giusto, come è scritto (Proberbi 21, 2): «Ogni sua azione pare corretta all’uomo». Perciò, è vietato ritenerlo un malvagio [in base] alle sue azioni e andare a raccontarle.


4.10


E nonostante quanto detto sopra, se si nota che qualcuno ha un brutto difetto, come l’orgoglio, l’ira, o altri vizi spregevoli, o che non si occupa per niente di Torà, e così via – è giusto raccontare la cosa al proprio figlio o ai propri allievi, avvertendoli di non frequentarlo, per non essere influenzati dai suoi atti. Perché l’essenza del divieto della lashon harà’ nella Torà, perfino quando si tratti di verità, riguarda i casi in cui si intenda avvilire qualcuno rallegrandosi della sua umiliazione; ma se l’intenzione è di salvare il prossimo affinché non sia influenzato dai suoi atti, è chiaramente permesso, e vi è pure una mitzvà [in merito]. Ma in questo e altri casi sembra che chi racconta abbia l’obbligo di spiegare il motivo per cui parla male del prossimo, in modo che chi ascolta non sia indotto nell’errore di permettersi di rincarare la dose; e [lo si deve spiegare] anche affinché l’altro non si stupisca della sua contraddizione tra la volta in cui dice che è vietato raccontare perfino quando trattasi di verità, come si spiegherà più avanti nella Regola 9 (par. 5), e che è una grande mitzvà allontanare sin dall’infanzia i propri figli da questo peccato, e adesso invece è lui stesso a raccontare di persona (e un argomento simile è trattato anche nello Shulchan 'Arukh, Yorè Deà, Taz, seg. 92, par. 22, quando si autorizza a fare una cosa che alcuni poskìm* vietano, per esempio alla vigilia di shabbat e in casi simili).


4.11


E si sappia ancora un principio importante correlato: se si vuole fare un accordo con qualcuno, per esempio dargli un lavoro o mettersi in società con lui, o concordare un matrimonio [tra membri delle rispettive famiglie], o cose di questo tipo, anche se non si è mai sentito parlare male di lui, ciononostante è permesso indagare sulla sua persona5; e malgrado sia possibile che ne parlino male, anche così è permesso, perché lo si fa soltanto per il proprio bene, per non rischiare di subire in seguito dei danni, e poi arrivare a liti, dispute e profanazione del nome dell’Onnipotente, che D-o ce ne scampi. Però mi sembra sia necessario informare la persona presso cui si intende indagare, che si ha l’intenzione di concordare un matrimonio o fondare una società con lui [secondo gli esempi] di cui sopra, e così non ci si addosserà alcun sospetto di trasgressione: né per via della sua domanda, poiché non si ha intenzione di parlarne male, ma soltanto di occuparsi del proprio tornaconto, come abbiamo spiegato (ma si presti attenzione a non credere completamente alla risposta, per via dell’accettazione della lashon harà’, bensì la si prenda semplicemente in considerazione per difendere i propri interessi); né si trasgredirà alcun divieto [chiedendo] una risposta all’interpellato, laddove si potrebbe affermare che si trasgredisce il divieto «Non porre un ostacolo davanti a un cieco»6, perché se anche l’interpellato raccontasse tutto il male che pensa [dell’indagato], anche in questo caso non trasgredisce un divieto perché neanche lui racconta una critica fine a sé stessa dell’indagato, bensì dice la verità per il bene di chi gliene ha chiesto un parere, cosa che come abbiamo spiegato altrove è permessa7. Ma bisogna stare molto attenti a non esagerare nella risposta [rivelando] più di quanto si sappia con certezza, e [si presti attenzione anche] ad altre cose, pure esse necessarie. E si consultino più avanti le corrispondenti leggi della rekhilut (Regola 9, par. A e B).


[Bisogna prestare molta attenzione anche a un’altra cosa: non si chiedano queste informazioni a una persona che si suppone possa provare astio per l’indagato, perfino se non si tratta proprio di odio, [per esempio] quando anche l’interpellato esercita la stessa professione dell’indagato; perché si sa che, per via dei nostri molti peccati, ogni artigiano prova astio [verso coloro che esercitano lo stesso mestiere] (Rashi in Gen. 3, 5). Infatti, non solo non se ne trae alcun beneficio, perché l’interpellato è abituato a mentire o comunque a esagerare le informazioni, per via del suo astio; ma lo si induce in questo modo a dire anche maldicenza, perché senz’altro la sua risposta risulta dettata dall’astio, e questo anche se assicura che la sua risposta non è distorta dal livore ed è anzi dettata dal voler prevenire i guai in cui il suo interlocutore incorrerebbe sigillando un accordo con l’indagato, mentre dentro di sé sa che non è vero.]

Ma se non si dice all’interpellato il motivo dell’inchiesta, e si finge di essere estranei [all’argomento], allo scopo di ottenere tutte le informazioni sull’indagato, appare evidente che si trasgredisce il divieto di «[non porre un ostacolo] davanti a un cieco», perché in questo modo, se l’interpellato parla male dell’indagato, trasgredisce un divieto, e ciò perfino se quanto raccontato corrisponde al vero, così come abbiamo già esposto in precedenza, che secondo tutti i poskìm* il divieto della maldicenza vale perfino sulla verità, e non la si può raccontare se non nel caso in cui questo biasimo sia utile a chi indaga, ma in caso contrario non si può. E se anche ne scaturisse un beneficio per chi indaga, in ogni caso l’intenzione dell’interpellato era di danneggiare l’indagato. Perciò bisogna agire secondo quanto spiegato [cioè rivelare i motivi dell’inchiesta].


[E che il lettore non mi risponda che si tratta di un impegno difficile da onorare, per via del fatto che quando si svela all’interpellato che l’informazione interessa per via di un certo affare, [il suo interlocutore] rifiuterà di rispondere. Ribatterei: e se anche fosse così? È forse permesso proporre un bicchiere di vino a un nazireo [che ha fatto voto di astenersi dal vino] al fine di trarne un guadagno o un beneficio qualunque? Questo si applica anche alla nostra discussione: perché il divieto della maldicenza, in ogni caso, non è inferiore agli altri divieti della Torà. E se qualcuno può trarne un beneficio, [può questo giustificare] l’indurre il prossimo a [trasgredire] un divieto? E abbiamo già spiegato nell’introduzione8, nel par. 4, che il divieto di «Non porre un ostacolo davanti a un cieco» include anche il caso in cui non si ha l’intenzione di far peccare il prossimo: chi gli offre il motivo per farlo peccare già trasgredisce questo divieto.
E in verità, non c’è nemmeno bisogno di questa risposta; perché rivolgendosi all’interpellato e dicendogli:
“Fratello, vorrei chiederti di parlare di un certo argomento, non esagerare e dimmi solo ciò che tu sai. E non incorrerai in un divieto se mi risponderai, perché tutti e due abbiamo solo l’intenzione di parlare per un beneficio futuro e non per denigrare chicchessia, e ti assicuro che nessuno ne saprà mai nulla”, e in seguito si esporrà l’argomento – senza dubbio l’interpellato gli racconterà la verità. E la maggior parte delle persone cadono in questo errore, per via dei nostri molti peccati, riguardo a questioni pre-matrimoniali e affini, per le quali vorrebbero conoscere la natura della persona con cui stanno per associarsi, e perciò indagano –estraniandosi dal caso e fingendo che la cosa non li riguardi per niente, incorrendo così nel divieto di indurre l’interpellato a commettere lashon harà’. E per di più: essi non cominciano col chiedere direttamente dell’indagato, con cui stanno per associarsi, ma anzi [cominciano parlando] di altre persone, affinché non si capisca che hanno un interesse in questa [discussione]; in questo modo, essi inducono gli altri a dire lashon harà’ completa riguardo a molte persone, senza che ce ne sia alcuna utilità. Perciò bisogna agire come abbiamo esposto [sopra]. Ma riguardo alla legge che regola le modalità della risposta, e i casi in cui fornire informazioni, essa sarà esposta nei dettagli più avanti, con l’aiuto di D-o, nella Regola 9.
Inoltre, a volte può succedere di chiedere a qualcuno notizie del figlio o di un parente che vive in un’altra città, come sta e cosa fa, e tra l’altro chiede anche riguardo alla Torà, se la studia ancora oppure no – ebbene, la regola è come segue: se questa domanda è posta con l’intenzione di produrre un beneficio futuro, per esempio nel caso in cui si venisse a sapere che la persona in questione ha abbandonato la Torà, allora lo si incoraggerebbe a migliorarsi in futuro – [in questo caso] è senza dubbio permesso e auspicabile [chiedere], e l’interpellato ha l’obbligo di rispondere e di dire la verità (come è spiegato nel Talmud Bavli, trattato di ’Arakhìn, foglio 16b:
«Molte volte, ’Akiva è stato punito a causa mia ecc.»). Ciò, a condizione che chi chiede informi di essere un suo parente e di voler conoscere la verità, ed in questo modo l’interpellato eviterà il peccato di lashon harà’ mentre chi chiede [eviterà] il peccato di «Non porre un ostacolo davanti a un cieco». Invece, la gente si è abituata, quando ci si trasferisce da una città all’altra, e si incontra uno che viene dalla città di origine, a chiedere e indagare su tutti i suoi abitanti in generale, e in particolare riguardo alla loro situazione ed alle loro abitudini, negli obblighi verso D-o e verso il prossimo, se si comportano bene o male; e in particolare si chiede dei figli dei notabili che studiavano quando si abitava ancora lì, se studino ancora la Torà o se l’abbiano abbandonata. E una discussione come questa non gode di nessuna delle deroghe esposte in precedenza, perché chi indaga non ha certo intenzione di andare poi a redarguire gli abitanti della città in cui aveva vissuto in precedenza; e in particolare, chi risponde non lo fa certo con quell’intenzione. Una discussione come questa è impregnata di lashon harà’ dall’inizio alla fine, perché si indaga su ognuno degli ex-concittadini, si definisce ognuno di loro con una definizione particolare che ne descriva il timore di D-o benedetto e ne delinei i tratti caratteriali.
Si veda nell’introduzione quanti precetti positivi e negativi si trasgrediscono dicendo o ascoltando
lashon harà’ su un ebreo; ed in particolare, [nel tipo di] discussione di cui sopra, quanto più numerosi sono gli abitanti di quella città e tanto più aumenta la chiacchiera, e si moltiplicano le trasgressioni di precetti positivi e negativi, e si dovrà rendere conto di ciascuna. Perciò una persona prudente si allontanerà da queste circostanze il più possibile.

4.12


E se si è trasgredito e detto lashon harà’ sul prossimo, e si vuole fare teshuvà*, dipende dalla situazione: se gli astanti hanno respinto le sue rivelazioni, e [perciò] la loro stima della persona in questione è rimasta immutata in seguito a questa [lashon harà’] - in questo caso non rimane che il peccato commesso verso D-o, cioè di aver contravvenuto al volere di D-o che ha comandato questo [precetto], come abbiamo indicato nell’introduzione – la riparazione consiste nel pentirsi di quel che si è fatto in passato, nell’ammettere la propria colpa, e nel decidere definitivamente di non farlo più in futuro, come si fa per tutti i peccati verso D-o. Ma se la stima di quel tale è diminuita presso gli astanti per via di questa [lashon harà’], e come risultato ne ha sofferto un danno fisico, economico o morale, allora diventa come tutti gli altri peccati verso il prossimo, che perfino Kippùr e la morte non [bastano a] espiare finché non si è ottenuto il perdono da parte del prossimo; perciò bisogna chiedere perdono al prossimo per questa [lashon harà’], e quando l’altro si sarà convinto a perdonarlo, non resterà altro che il peccato verso D-o, e [allora] si comporterà secondo quanto esposto sopra. E perfino quando colui di cui si è sparlato non ne sa ancora nulla, bisogna rivelargli il torto che gli si è recato e chiedergli perdono per questo, perché si è consapevoli di esserne la causa. E da questo possiamo capire quanto si debba stare attenti a questo brutto vizio, perché è quasi impossibile per chi ci si abitua, che D-o ce ne liberi, fare teshuvà*, perché non potrà certamente ricordarsi di tutte le persone che ha afflitto con la sua maldicenza. E pure riguardo a quelle persone di cui ricorda di aver sparlato, esse non lo hanno mai saputo, e quindi si vergognerà a rivelarlo alle loro orecchie. E a volte si sparla di un difetto di una famiglia, danneggiando in questo modo tutte le generazioni successive, e non si potrà ottenere il perdono per questo, come hanno detto i nostri Maestri (Rabbenu Yona, secondo il Talmud Yerushalmì, Bava Kama, cap. 8, hal. 7): «Chi racconta un difetto di una famiglia non potrà mai espiare [questa colpa]». Perciò bisogna allontanarsi molto da questo vizio orrendo, per non finire in seguito, che D-o ce ne guardi, come «Ciò che è storto non si può raddrizzare» (Ecclesiaste 1, 15).


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Note dei traduttori:
[1] Allorché probabilmente a posteriori la cosa non è vietata.
[2] Qui l’Autore aggiunge una breve nota tecnica per spiegare perché, secondo lui, il testo del Talmud Bavli (Ketubot 2a, commento Tosafòt Sheim) non contraddice quanto esposto sopra e porta fonti e spiegazioni in favore di questa tesi.
[3] Trattasi di punizione corporea non imposta dalla Torà, ma impartita per decisione del tribunale.
[4] Qui si intende coloro che fingono di seguire scupolosamente la legge, mentre in realtà la trasgrediscono. Nel commento a questo passaggio del Talmud, Rashi spiega quanto sia grave la colpa di questi ruffiani: per via della loro finta rettitudine indurranno molti ad apprendere dalle loro azioni; e quando verranno investiti dai guai, tutti si chiederanno a cosa sia servita la loro “rettitudine.” Il peccato della profanazione del nome di D-o (chillùl Hashèm) è di una gravità eccezionale, come spiega lo stesso trattato di Yòma (86a).
[5] Trattandosi di temi molto delicati, che vanno oltre il contesto di codesta opera, e per non rischiare di essere fraintesi riguardo al permesso di indagare su altre persone in determinate circostanze, i traduttori hanno usato il termine molto generico “sulla sua persona” per tradurre מהותו וענינו. Si invita il lettore interessato a consultare un’autorità rabbinica competente.
[6] Perché sembra che si inciti a parlare male dell’indagato, e se l’interpellato avesse una tendenza alla malalingua sarebbe come metterlo di fronte a un ostacolo che non può evitare.
[7] Bisogna capire bene l’idea che è vietato parlare quando si è spinti dall’astio, ma in altre circostanze, se si è motivati dalla necessità di ottenere informazioni a fin di bene, può invece essere permesso. È importantissimo approfondire i dettagli di questo permesso per capire in ogni frangente se esso possa essere applicato o meno.
[8] Divieti, Pozzo d’Acqua Vivente, vedi versione originale.


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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
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