Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim
Regola 6 - R. Israel Meir Hacohen Kagan


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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Regola 6


In questa Regola si spiegherà il divieto di accettare la lashon harà’ e di ascoltare lashon harà’, e come agire a priori in quei casi. E anche come comportarsi secondo la Torà quando si capita in un gruppo malvagio di maldicenti; e molti altri argomenti. Essa include dodici paragrafi.

6.1


La Torà vieta di accettare la lashon harà’, sia che essa renda conto di una trasgressione degli obblighi verso D-o, sia di quelli verso il prossimo; ciò significa che non si deve credere in cuor nostro che la storia sia vera, perché in questo modo colui di cui si parla ne risulterebbe diminuito ai nostri occhi. E questo, perfino se non si accetta esplicitamente quel racconto, ché altrimenti si raddoppia la colpa, raccontando e accettando1. Colui che accetta trasgredisce un precetto negativo, perché è scritto: «Non accettare un racconto vano» (Esodo 23, 1), e i nostri Maestri hanno detto nella Mekhilta* che questo è un ammonimento a chi accetta la lashon harà’, oltre ai vari precetti positivi e negativi connessi, come già discusso nell’introduzione, si consulti colà. E i nostri Maestri hanno detto che chiunque accetti la lashon harà’ meriterebbe di essere gettato ai cani, come è detto «Non accettare un racconto vano» in prossimità del versetto «Lo getterete ai cani»2. Dissero anche che la punizione di chi l’accetta è superiore a quella di chi la profferisce.


6.2


Perfino l’ascolto di lashon harà’ è vietato dalla Torà, e questo anche se al momento dell’ascolto non si ha intenzione di accettare ciò che viene detto, perché comunque si presta orecchio all’ascolto. Ma ci sono varie differenze tra ascoltare e accettare, perché nell’ascolto è vietato solo il caso in cui non si tragga alcuna utilità futura, ma se si trae un’utilità futura e se la cosa è vera, per esempio quando chi ascolta capisce fin dal principio del racconto che gli si sta raccontando che Tizio non è una persona affidabile e così via, e si aveva intenzione di associarsi a lui o di stringere un accordo matrimoniale con lui e così via, in questo caso è permesso a priori ascoltare per cautelarsi e mettersi in guardia nei suoi confronti; questo perché si vuole ascoltare non al fine di sentirne il biasimo, bensì per salvaguardarsi e evitare di arrivare poi a una situazione di danno o di litigio o simili. E così è anche quando, malgrado non si abbia alcun interesse personale ad ascoltare, comunque il proprio ascolto sarà di beneficio ad altri, e anche in questo caso è permesso. Per esempio, si vuole sentire questa cosa per poter poi indagare e scoprire se è vera, e poi andare da quel tale e rimproverarlo a questo proposito, e forse ciò servirà a fargli abbandonare il suo peccato, o a fargli restituire il maltolto al suo proprietario, o a farlo riconciliare con chi ha insultato e avvilito, e così via – e il motivo è come indicato sopra. Ma l’accettare, cioè il decidere in cuor proprio che la cosa è vera, è vietato in ogni caso.


6.3


E il lettore non si chieda allora come si potrà riuscire ad assolvere questo obbligo verso D-o, dopo che ho definito con precisione i termini [del divieto], per i quali perfino l’ascoltare il biasimo del prossimo è di per sé vietato, e mai sia che ciò lo ostacoli nel commercio e così via. La risposta è: chi vuole assolvere il suo obbligo verso D-o riguardo all’ascoltare, proceda così: quando una persona viene a raccontargli di qualcuno, e si intuisce che si tratta di cose biasimevoli, gli si chieda fin dal principio: “Ciò che mi vuoi raccontare ha un’utilità futura per me? O forse potrò porre un rimedio alla cosa attraverso il rimprovero o in un altro modo?” Si veda quanto esposto in precedenza. Se questi gli risponde che c’è di fatto un’utilità futura per lui, o che può rimediare alla cosa, come spiegato in precedenza, è permesso ascoltare. Non si creda [a ciò che si sente], per il momento, ma si prenda in considerazione la cosa, finché l’argomento non sarà accertato. Ma se dalla risposta si capisce che non ci sarà alcuna utilità, o che si tratta solo di inutili insulti e improperi, che costui tesse contro quell’altro una trama malevola e che lo critica per via dell’odio che egli prova per lui, [allora in questo caso] è vietato perfino ascoltare.


[E si può vedere chiaramente che chi ascolta lashon harà’, anche senza l’intenzione di crederci, aiuta in questo modo i criminali, perché chi vedrà che qualcuno lo ascolta una volta, non chiuderà più la bocca davanti a lui, e continuerà con la sua cattiveria a profferire insulti sul prossimo e a inventare menzogne su di lui anche in futuro. Ciò non succederebbe invece se gli si rispondesse: “Non mi interessa ascoltare una cosa che non ho visto io stesso”, o se almeno si reagisse mostrando una faccia adirata, perché in questo modo costui eviterebbe in futuro di dire del male degli altri, rendendosi conto del disonore che ciò gli procura, considerato che questo [comportamento] gli provoca una fama di maldicente, come è spiegato da Rabbenu Yona (par. 212).]


6.4


E a volte, è una mitzvà* ascoltare chi biasima qualcuno: per esempio quando si ritiene che ascoltando tutta la storia si potrà poi provare a chi la racconta o ai presenti che essa è infondata, differentemente da quanto viene riportato, o che forse si potranno fornire altre informazioni a favore.


[Ed è veramente questo il consiglio da dare in questo frangente: che se si viene meno al divieto di ascoltare lashon harà’, bisogna cercare subito, con tutte le proprie forze, un argomento a favore da presentare a chi sta raccontando, e sforzarsi di fargli cambiare idea, e in questo modo si riparerà la propria trasgressione a posteriori (si veda in seguito al par. 12 un rimedio per chi è venuto meno al divieto di accettare la lashon harà’). E ciò è valido in generale, ma quando si conosce la malvagità di chi racconta, che più si dice del bene e più troverà argomenti contro, è chiaro che in questo caso è meglio stare zitti mentre quello racconta, e solo dopo che il maldicente si è allontanato dagli ascoltatori, è mitzvà* che uno degli astanti spieghi agli altri tutta la storia da un punto di vista positivo, provando in questo modo a sradicare dai loro cuori il biasimo che è stato detto di quel tale, affinché né lui né loro siano ritenuti nel mondo futuro una banda di mascalzoni e maldicenti.]

E c’è pure un altro caso in cui è una mitzvà* ascoltare: quando Tizio va da Caio per raccontargli le sue rimostranze contro qualcuno per un torto che questi gli avrebbe fatto; e Caio sa che Tizio lo ascolterà e che potrà quindi placarne l’ira, cosicché non continuerà a raccontare la cosa a terzi (che potrebbero crederci e accettare questa maldicenza), e in questo modo si diffonderà la pace tra gli ebrei. Ma in tutte le deroghe citate riguardo all’ascoltare, si deve fare molta attenzione a non crederci del tutto - ci si limiti soltanto a prendere la questione in considerazione, per evitare di cadere nel peccato di accettare la lashon harà’.


6.5


Torniamo ora all’argomento di cui sopra, cioè quanto detto al par. 6.2, che la Torà vieta perfino di ascoltare la lashon harà’. Ciò che è vietato è andare ad ascoltare, ma se ci si trova già con un gruppo di persone che si sono riunite per un qualsiasi motivo e hanno cominciato a tenere discorsi vietati, e si ritiene che rimproverarli non servirebbe a niente, ci si deve comportare secondo i criteri seguenti: se c’è modo di allontanarsi da loro o di tapparsi le orecchie, si compie una grande mitzvà*, come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli (Ketubot 5). Ma se non si può sgattaiolare via e si prevede che la scelta di tapparsi le orecchie possa essere alquanto difficile perché ci si renderebbe oggetto di derisione, e senz’altro non si sceglierà questa opzione, in ogni caso bisogna farsi forza, e prendere in questo difficile frangente la ferma risoluzione di combattere la battaglia di D-o contro il proprio istinto malvagio per non cadere nel divieto della Torà di ascoltare e accettare la lashon harà’. Perché ciò avvenga devono esserci tre condizioni a cui bisogna prestare molta attenzione, perché permettono di salvarsi almeno dal divieto della Torà in cui si incorre col peccato di cui sopra:


  • Decidere in modo irremovibile di non credere alle critiche che vengono rivolte contro un altro.

  • Non sentirsi a proprio agio mentre si ascoltano quei racconti vietati.

  • Decidere fermamente di non fare agli astanti alcun cenno da cui si possa dedurre che si concorda con loro, e anzi, stare lì pietrificati. Ed è certamente ancora meglio mostrar loro un volto contrariato, da cui si capisca che non si concorda con quei loro vani propositi.

6.6


In qual caso vale tutto ciò? Quando il gruppo di persone cui ci si è uniti non stava [ancora] parlando di cose vietate e ora [che lo fanno] non ci si può più defilare. Ma se al momento di unirsi a quel gruppo avevano già cominciato a tenere discorsi vietati, o se si ha [adesso] la possibilità di sottrarsi alla loro compagnia, e ci si astiene dal farlo, o se si conosce già la tempra di quella gente e si sa che sono dei maldicenti il cui diletto è di sparlare sempre del prossimo – e ciò nonostante ci si unisca alla loro compagnia, anche se non si partecipa al loro discorso e non ci si trova a proprio agio, in ogni caso si è definiti criminali alla loro stregua, perché [in tal modo] si trasgrediscono i precetti dei nostri Maestri, che ci hanno comandato di allontanarci dall’ascolto di discorsi inappropriati. E, a maggior ragione, se si ha l'intenzione di ascoltare i loro propositi, il peccato diventa intollerabile, e chi lo fa viene marchiato lassù nel libro delle memorie come un individuo malvagio e maldicente, come esposto nel Pirkè Derabbì Eliezer, nel testamento di rabbi Eliezer Hagadòl [“il grande”] che ordinò a suo figlio Horkenùs: «Figlio mio, non stare mai in un gruppo di gente che sparla del prossimo, perché quando le parole salgono lassù, esse vengono iscritte nel libro, e tutti i presenti vengono catalogati come membri di una cosca malfattrice e maldicenti». Perciò bisogna davvero allontanarsi assai da una compagnia malvagia come questa.


6.7


E sappia il lettore che ciò abbiamo scritto a nome dei poskìm*, cioè che la Torà vieta di credere a parole di biasimo dette sul prossimo, questo vale perfino se si sa che ciò che viene raccontato corrisponde a verità ma può essere interpretato a favore o a sfavore, e chi glielo racconta ha scelto l’interpretazione sfavorevole e perciò lo condanna. E si sa che per l’ascoltatore giudicare favorevolmente è una mitzvà* (e così stabilisce il Talmud Bavli, Shevuot 30a, ed è una mitzvà della Torà secondo diversi poskìm*), e chi la trasgredisce, astenendosi dal giudicare favorevolmente e approvando la critica espressa dall’accusatore, non solo trasgredisce il precetto «Giudica il prossimo con benevolenza» (Levitico 19, 15), ma viene pure considerato una persona che accetta la maldicenza, perché astendendosi dal giudicarlo favorevolmente, automaticamente quelle parole di biasimo hanno presa su di lui.


6.8


E tutto ciò vale anche quando si parli di un benonì*, che in generale si astiene dal peccato e talvolta vi incorre, e, a maggior ragione, qualora la chiacchiera riguardasse un uomo timoroso di D-o, per il quale il precetto «Giudica il prossimo con benevolenza» acquista ancora più importanza (come spiega Rambam nella Mishnà, Avot 1, 6 e nello Shaarè Teshuvà di Rabbenu Yona, par. 218), per cui colui che trasgredisce questa ingiunzione e giudica negativamente e approva la critica espressa dall’accusatore – certamente infrange il divieto di accettare la lashon harà’.


[E ora spiegheremo un errore che si commette, a causa delle nostre molte colpe, riguardo all’accettazione della lashon harà’ senza aver visto di persona. E descriverò una situazione da cui la persona assennata dedurrà tutti i casi simili. Si tratta di ciò che avviene spesso quando qualcuno esce perdente da un processo e racconta a un amico arrangiando gli argomenti a suo favore e dice: “Vedi tu stesso come il diritto sia dalla mia parte, eppure il tribunale rabbinico ha sentenziato il contrario, e se il mio processo fosse stato giudicato da tale o tal altro rabbino, che è notoriamente un saggio, egli avrebbe certamente individuato da che parte sta la verità e non avrebbe pronunciato una sentenza assurda e scriteriata come questa”. Inoltre, per questo motivo costui esprime nei confronti del tribunale ingiurie e spropositi tali da non potersi mettere per iscritto. E se l’amico risponde esprimendo il suo dubbio riguardo alla possibilità che il tribunale abbia emesso una tale sentenza, egli gli risponderà: “Ecco il testo della sentenza, leggilo bene e vedi da te che non è stata emessa con cognizione e discernimento.” E gli mostra la sentenza, gliela rilegge più volte, e ogni volta si stupisce di più, e ci trova anche degli elementi che contraddicono la sua comprensione (giacché si sa che la logica della gente comune non è uguale a quella della santa Torà), finché si mettono in testa tutti e due che il rabbino o il tribunale rabbinico di quella città non sono intellettualmente in grado di emettere sentenze oculate.
E ora, veniamo al nostro argomento: si veda come [l’ascoltatore] abbia spudoratamente trasgredito il divieto di
«Non accettare un racconto vano», e il precetto positivo di «Giudica il prossimo con benevolenza», e ancora altri divieti esposti nell’introduzione. E se invece seguisse la via della santa Torà, quando gli si rivolge qualcuno in questi frangenti, se avesse la possibilità di distogliere il suo interlocutore dal suo rancore contro il tribunale, avrebbe senz’altro l’obbligo di farlo, e dovrebbe anche esporre varie spiegazioni per cui il tribunale non ha torto, che D-o ce ne guardi, che esso giudica secondo quanto esposto nella santa Torà e secondo le affermazioni [delle parti in causa], e che il giudice si basa solo su ciò che vede – perché a volte, malgrado la verità sia da una parte, la Provvidenza fa sì che sia l’altra parte a prevalere, come è detto nel Talmud Bàvli (Berakhot, 7b): «Non solo, ma vince anche la causa», com’è detto (Salmi 10, 5) «Le Tue punizioni sono lontane da lui ecc.», e può darsi che sia la sorte di quell’altro ad aver prevalso (come spiegato dal Rosh, nel capitolo Echàd Dinè Mamonòt, par. 5 – e si consulti colà nel Pilpùla Charìfta par. 18 o segno tzadi). E [dovrebbe anche] aggiungere: “Non preoccuparti, vedrai che il Santo, benedetto Egli sia, ti renderà il maltolto in un altro modo, come è detto: ‘Non solo, ma mi scomodano pure per farmi rendere il maltolto ai suoi proprietari’.» [Gli dica] simili parole di conforto per cancellare il suo disappunto e il rancore verso il tribunale (e si veda nel Pozzo d’Acqua Vivente, alla Regola 9.5 ciò che corrisponde a questo argomento).
E se anche si vedesse che le proprie parole non hanno effetto, in ogni caso bisogna sforzarsi di non accettare le parole di condanna e di rancore di quell’amico arrabbiato contro il tribunale di quella città, perché il divieto di accettare la
lashon harà’ e l’obbligo «Giudica il prossimo con benevolenza» valgono perfino nei confronti di ebrei qualunque, e quindi a maggior ragione nei confronti di chi è considerato un talmìd chakhàm*, rispetto al quale il precetto di giudicare favorevolmente è obbligatorio perfino quando gli elementi a carico sono molto maggiori di quelli a favore (come ha scritto Rabbenu Yona nello Shaarè Teshuvà, par. 218, si consulti colà; ed è simile a ciò che è scritto nel Talmud Bàvli, Berakhot, 19a «Se vedi ecc.», si consulti colà). A maggior ragione [si farà così] se gli elementi a favore sono di gran lunga maggiori a quelli contro, poiché è noto a tutti coloro che si intendono di questioni giuridiche che la sentenza può differire [anche] a causa di una [sola] affermazione o di un solo ragionamento, e perfino chi è saggio ed esperto nella Torà, anche se tende a preferire le argomentazioni di costui, che pretende di avere ragione, malgrado ciò deve pensare che forse non ha esposto questi argomenti durante il dibattito, e solo adesso, dopo aver perso, si sia convinto che avrebbe dovuto argomentare in quest’altro modo.
La regola a questo riguardo è che ci sono molti più argomenti a favore (dei membri del tribunale) che contro, e perfino se si fosse rovistato a fondo senza riuscire a trovare loro alcuna attenuante, in ogni caso la Torà vieta di prendere posizione nei loro confronti e di dire che non sono in grado di giudicare il diritto secondo la Torà. Ci si deve invece recare da quel rabbino o da quel tribunale [di cui non si condivide la sentenza] e chiederne le motivazioni, come è detto nelle Massime dei Padri:
«Non giudicare il prossimo finché non ti trovi nella sua situazione». Forse essi dimostreranno che il fatto non è accaduto, o [esporranno] le motivazioni del verdetto, o le fonti della loro decisione. Oppure ammetteranno di essersi sbagliati, perché abbiamo visto che perfino alcuni Maestri del Talmud hanno emesso decisioni sbagliate e si sono ravveduti in seguito, per esempio nel Talmud Bàvli (trattato di Niddà, foglio 68a): «In seguito Ràva nominò un interprete e spiegò: ‘Ciò che ho detto prima era un errore, invece così dissero’ ecc.». E come è scritto nella Torà: (Levitico 19, 17) «Rimprovera il prossimo e non ti rendere colpevole nei suoi confronti» e ciò, secondo l’interpretazione di Rambam nelle sue Halakhot, in cui spiega che questo versetto significa che bisogna verificare con il prossimo il motivo delle sue azioni e non tenere questo livore dentro di sé, si consulti colà.
E chi infrange ciò che abbiamo esposto, cioè chi decide in cuor suo, dopo aver sentito il racconto dell’amico, che quel rabbino o quel tribunale non hanno espresso una sentenza appropriata, e che c’è un errore in quella decisione – e ciò senza indagare e verificare le motivazioni di quel tribunale – trasgredisce varie leggi della Torà, in particolare il divieto di accettare la maldicenza e quello di
«Non ti rendere colpevole nei suoi confronti» secondo l’interpretazione di Rambam. E la Provvidenza giudica favorevolmente colui che giudica il prossimo favorevolmente.]

6.9


Così come vige il divieto di accettare la lashon harà’ raccontata su qualcuno che ha agito impropriamente, e in questo caso ci è ordinato di non credere che la cosa sia necessariamente vera (e come nel par. 6.1) – così il divieto di accettare la lashon harà’ vige riguardo gli altri aspetti del divieto di lashon harà’ che abbiamo esposto in precedenza (come umiliare qualcuno ricordandogli le azioni dei suoi antenati; o i suoi trascorsi giovanili allorché oggigiorno si comporta bene; o la sua mancanza di saggezza, sia riguardo alla Torà che a cose mondane, e come riportato sopra nelle Regole 4 e 5), [ossia] rispetto a qualunque affermazione di biasimo. Ciò perché ci viene comandato di non accettare le affermazioni di chi parla di qualcun altro per renderlo oggetto di biasimo. La regola generale è la seguente: riguardo a tutte le cose il cui racconto è proibito, chi le accetta infrange il divieto di accettare.


6.10


Malgrado ciò che abbiamo detto, che accettare la lashon harà’ (ovvero decidere dentro di sé che la cosa è vera) sia vietato dalla Torà, i nostri Maestri hanno comunque detto che bisogna comunque sospettare. Ciò significa che bisogna accettare la cosa solo come un sospetto, cioè solo per guardarsi da qualcuno e non esserne danneggiati, e questo [sospetto] non deve arrivare nemmeno al livello di dubbio, poiché si ritiene che le persone siano a priori corrette, e quindi si è ancora tenuti a prodigare all’interessato tutte le bontà che la Torà ha ordinato di riservare agli altri ebrei, poiché la nostra stima di quell’individuo non deve essere intaccata dalla lashon harà’ in alcun modo.


[E questa domanda non si pone nel caso in cui senza quella lashon harà’ la persona sarebbe considerata alla stregua di tutti gli altri ebrei – ma perfino quando la persona coinvolta ha già la reputazione di essere un malvagio, per via delle [sue] azioni inique, ma non abbastanza da giustificare la sua esclusione dalla comunità degli altri ebrei – al punto [da smettere] di restituirgli gli oggetti smarriti, dargli la tzedakà*, riscattarlo se è prigioniero e così via – e ora si apprende che è uscito del tutto dalla definizione di “tuo prossimo”, per esempio quando [tra due scelte equivalenti] tralasciasse ciò che è permesso e scegliesse ciò che è vietato; malgrado ciò, finché le accuse non sono state appurate in tribunale, ma sono state semplicemente divulgate da terzi, [perfino riguardo a costui] non è permesso dare credito ai loro propositi e in base a ciò astenersi dal riscattarlo se è fatto prigioniero e via di seguito.]

La Torà ha solo permesso di prendere in considerazione la lashon harà’ per salvaguardare sé stessi e gli altri dalla persona in questione, e a questo riguardo i poskìm* hanno scritto che è permesso sospettare laddove ci può essere un danno per sé stessi o per gli altri qualora non si prestasse attenzione (e questo permesso riguardo agli altri merita un ampio approfondimento, e si consulti il Pozzo d’Acqua Vivente nelle Leggi della rekhilut, Regola 9, dove con l’aiuto di D-o questo aspetto verrà spiegato in dettaglio). Ma negli altri casi è vietato tenere la lashon harà’ in alcun conto e crederci in alcun modo.


6.11


E la gente commette errori su molte cose riguardo al [permesso di] sospettare, e bisognerebbe parlarne molto, ma non è qui il luogo adatto per dilungarsi, e le esporrò se D-o vorrà più avanti nella Regola 10. Comunque, la regola generale è che ciò che si è detto - che bisogna essere insospettiti dalla maldicenza – è valido solo riguardo al salvaguardarsi da colui di cui si parla. Ma non agire nei suoi confronti, che D-o ce ne scampi e liberi, recandogli di conseguenza un danno o un’onta di qualunque misura; perfino se la lashon harà’ è stata rivelata da un testimone legittimo che ha deposto in tribunale, ciò non serve ad altro [essendo testimone unico] che a portare a [una procedura giuridica di] giuramento. E per di più è vietato dalla Torà perfino di odiarlo dentro di sé, e, a maggior ragione, questa lashon harà’ non dà il diritto di astenersi dagli obblighi che si hanno verso di lui.


[E qui descriveremo brevemente una situazione nella quale alcuni sbagliano, per via delle nostre molte colpe, per esempio, quando ci sono in città persone ritenute povere, e bisogna dar loro la tzedakà*, e succede che un tale dice del male di loro, che non sono veramente poveri, ma si fingono tali per imbrogliare il prossimo – e per via di [questa] maldicenza molti interrompono la precedente abitudine di elargire loro un’offerta. Secondo la Torà, questa è una grave ingiustizia, perché trattasi proprio di accettazione di lashon harà’, perché se ci si fosse comportati secondo la Torà, [che dice] di non accettare la lashon harà’ ma solo sospettare, non ci si sarebbe astenuti dal dare a quel povero, che sarebbe ancora ritenuto come tale, secondo la reputazione che aveva in precedenza, finché non si è provato il contrario, e gli abitanti della città sono tenuti a mantenerlo. E [i nostri Maestri] dissero ancora di più: se uno viene e dice: “Mantenetemi”, non si va a verificare, e [questo vale] a maggior ragione riguardo a quell’altro, che era ritenuto povero fino ad allora: come può questo maldicente annullare la sua reputazione e gli obblighi degli abitanti della città nei suoi confronti? Bisogna solo sospettare ciò che dice l’autore della rivelazione e indagare a fondo, e sicuramente, finché la cosa non venga appurata del tutto, non si ha il diritto di astenersi dall’obbligo della tzedakà. A questo proposito e riguardo a simili frangenti i nostri Maestri hanno detto: «Non estorcere al povero, perché è povero», che si applica a chi ha l’abitudine di mantenere un povero e smette di farlo: viene definito “colui che estorce al povero”.]

6.12


E se si è già ascoltato e creduto alla lashon harà’ in cuor proprio, sia che il biasimo riguardi mancanze verso D-o sia verso il prossimo – il rimedio è quello di raccogliere le proprie forze, rimuoverla dal cuore, smettere di crederci e prendere la ferma decisione di non accettare più in futuro la lashon harà’ su alcun ebreo, e che si confessi questa cosa, e in questo modo si porrà un rimedio alle trasgressioni di precetti negativi e positivi commessi accettando la lashon harà’, come esposto sopra nella prefazione - a condizione che non la si sia ancora raccontata a nessuno.


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Note dei traduttori:
[1] Questo passaggio necessita un’ulteriore spiegazione: si tratta del caso in cui si acconsente esplicitamente a un racconto di qualcun altro, anche con brevi interiezioni quali “sì”, “e poi?”, “davvero”, “capisco” e così via. Chi ascolta una maldicenza e invita in questo modo il suo interlocutore a continuare il racconto, si associa a lui e prende su di sé il peccato di dire la maldicenza, in più di quello ovvio di ascoltarla, in cui era già incappato fin dall’inizio del racconto. Di qui il raddoppio della colpa, così come espresso dall’espressione: “raccontando e accettando”.
[2] I nostri Maestri insegnano che niente è casuale nella Torà. Perciò, malgrado il secondo versetto tratti di tutt’altro argomento, essi interpretano (come in molti altri casi) la sua prossimità al primo versetto derivandone un insegnamento supplementare.


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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
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