Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim
Regola 8 - R. Israel Meir Hacohen Kagan


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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Regola 8


In questa Regola si spiegherà il divieto di dire lashon harà’ in tutti i suoi aspetti. Essa contiene quattordici paragrafi. Ricapitolando, nelle Regole precedenti abbiamo spiegato in maniera completa che cosa viene definito come lashon harà’ e così pure riguardo all’accettazione della lashon harà’. Illustreremo ora in questa Regola il divieto di dire lashon harà’ impostoci dalla Torà, la definizione di chi la dice, di chi la subisce [ovvero l’oggetto del racconto] e di chi l’ascolta, ognuna secondo il proprio ordine, e allo stesso modo spiegheremo riguardo all’accettazione della lashon harà’. E dunque il lettore non si stupisca se in certi casi verranno ripetute cose molto semplici, e ciò per rispettare il loro ordine, o perché molti le travisano; e mediante uno studio approfondito, si troverà in ultima analisi un insegnamento specifico1 per ogni argomento. E per cominciare spiegheremo la definizione di colui che racconta.


8.1


Malgrado l’abitudine di non offendersi nei confronti di chi esprime parole di critica allorquando queste vengano pronunciate da una persona per cui si prova simpatia, cionondimeno la lashon harà’ è vietata indipendentemente dal fatto che la esprima un uomo piuttosto che una donna, una persona vicina o lontana. Ed è anche frequente che quando una persona esprima una critica su qualcuno a lui vicino, non abbia in realtà l’intenzione di denigrarlo, bensì di affermare, per amor di verità, che secondo lui quell’altro non si è comportato bene verso qualcuno in un determinato frangente. Ciononostante, se la sua intuizione è errata, cioè se ha deciso troppo affrettatamente di giudicarlo negativamente, e in verità quell’altro non aveva colpe – questo caso rientra nella categoria di lashon harà’ in tutto e per tutto.


8.2


E ora si spiegherà riguardo a chi la Torà ha vietato di dire lashon harà’. Il divieto di lashon harà’ vale sia che il suo oggetto sia un uomo che una donna, e non c’è differenza se sia la propria moglie o un’altra donna. E molti sbagliano a questo riguardo, a causa delle nostre molte colpe, pensando che sia permesso criticare la moglie e la famiglia dei suoceri parlandone con il proprio fratello o con i propri genitori – e, dal punto di vista normativo, questo caso non presenta nessuna differenza [rispetto al divieto generale]. A meno che, invece di criticare, si abbia l’intenzione di produrre un beneficio futuro, e che non si mischi al racconto alcuna menzogna; e tutta la direttiva al riguardo si trova più avanti a partire dalla Regola 10.13 - si consulti colà.


8.3


E a volte il divieto di lashon harà’ vige pure nei confronti di un bambino: per esempio [è vietato] criticare un piccolo orfano adottato da un’altra [famiglia] per farlo crescere a casa loro, perché ciò potrebbe causare che lo mandino via [in seguito a quanto riferito]. E così pure per tutti i casi in cui col proprio racconto si provoca un danno o un dispiacere al bambino (e se si tratta di un’informazione di dominio pubblico riguardo allo stesso bambino, si consultino le Regole 2.3 e 2.9 e anche le Leggi della rekhilut, Regola 2.3). E se l’intenzione del racconto è di arginare i danni provocati da questo bambino e di condurlo sulla retta via, [in questo caso] è permesso [criticarlo], ma bisogna prima essere sicurissimi che la cosa sia vera e non affrettarsi a credere ciò che si è appreso da altri, come verrà spiegato in seguito nella Regola 10, si consulti attentamente colà. Bisogna anche prevedere le possibili conseguenze della rivelazione, perché queste vicende provocano spesso degli effetti contorti.


8.4


E si sappia che il divieto di lashon harà’ vige anche nei confronti di un ignorante, perché anch’egli fa parte del popolo di D-o e delle Sue schiere che ha fatto uscire dall’Egitto. E, a maggior ragione, se si tratta di un talmìd chakhàm*: certamente, chi dice lashon harà’ su un talmìd chakhàm si macchia di una colpa molto più grave. E i nostri Maestri hanno detto nel Talmud Bavli, Berakhot 19a: «Chi sparla dietro al feretro di un talmìd chakhàm finisce al ghehinòm*, com’è detto ecc.», e a volte in questo modo si rientra nella categoria di coloro che offendono un talmìd chakhàm. Ed è nota la gravità della pena [riservata a] chi offende un talmìd chakhàm, com’è scritto nel Talmud Bavli, Sanhedrin (cap. Chèlek, 99b), ed è pure sancito nello Shulchan 'Arukh (Yorè Deà 243, 6), che egli rientra nella categoria di colui che «ha offeso la parola di D-o, […] quella persona sarà recisa» (Numeri 15, 31). Però lo spirito malvagio induce l’uomo [a credere] che la legge riguardante l’offesa di un talmìd chakhàm* fosse valida soltanto in epoca talmudica, quando [i nostri Maestri] erano estremamente saggi, ma non si applica più ai saggi dei giorni nostri. Ed è un errore assoluto, perché ogni saggio è tale in funzione della propria epoca, e perfino al giorno d’oggi, anche qualcuno che è soltanto in grado di insegnare e si dedica allo [studio della] Torà viene chiamato talmìd chakhàm; e chi lo offende, perfino su cose banali, perfino in sua assenza, commette un peccato criminale e per questo motivo merita un niddùy [un allontanamento], com’è spiegato nello Shulchan 'Arukh (Yorè Deà, 243, 7) e nello Shakh (cap. 334, 68). E [questo vale] a maggior ragione se quel talmìd chakhàm insegna in città, nel qual caso la sua trasgressione è molto più grave, perché non solo egli è obbligato a considerarlo un Maestro e a rispettarlo, essendo egli vincolato al suo insegnamento; ma anche perché esprimendo delle critiche su di lui, allontana il pubblico dal servizio di D-o, poiché a causa di questo fatto il resto della popolazione dirà: “Perché dovremmo andare a chiedergli di giudicare le nostre vertenze giudiziarie, quando non ha le capacità per mediare tra di noi?” E in questo modo ognuno si costruisce il proprio altare personale (e vari altri inconvenienti, la cui lista è troppo lunga da elencare, che D-o ci protegga).


8.5


E tutto questo divieto di lashon harà’ riguarda esclusivamente chi è designato dalla Torà come “tuo prossimo”, cioè i membri del popolo che condividono con te il rispetto della Torà e delle mitzvòt*; ma riguardo agli individui noti per essere inclini all’eresia, è una mitzvà criticarli e condannarli, sia in loro presenza che quando sono assenti, riguardo tutto ciò che si è osservato o che si è venuti a sapere di loro, com’è scritto (Levitico 25, 17): «Non danneggiatevi l’un l’altro» e (Levitico 19, 16): «Non commettere delazione tra il tuo popolo», e loro non ne fanno parte perché non si comportano come il tuo popolo. Ed è scritto (Salmi 139, 21): «Non è forse vero che io odio chi Ti detesta, o Signore, e che combatterò chi Ti si oppone? Io li odio di un odio infinito e li considero miei nemici.» E si definisce eretico colui che nega la Torà scritta e orale e i profeti del popolo ebraico; e perfino chi dice che tutta la Torà è di origine divina con l’eccezione di un solo versetto, o di uno solo dei suoi princìpi logici (come quelli denominati kal vachomer e ghezerà shavà), o di un solo dettaglio – rientra in quella categoria.


8.6


E ciò vale se si sono ascoltate di persona le frasi di eresia. Ma se altri le hanno riportate, è vietato biasimare [chi le avrebbe pronunciate], sia davanti a lui sia in sua assenza. E inoltre è vietato crederci fermamente in cuor proprio, come imposto dal divieto di accettare la lashon harà’ e come spiegato in precedenza nella Regola 6. Per il momento si deve solo tenerne conto per i propri interessi e anche avvertire gli altri discretamente di non associarsi a loro finché la cosa non venga accertata. E quanto detto vale quando si tratta soltanto di un “sentito dire”, ma se costoro sono pubblicamente riconosciuti in città come eretici, in questo caso è come se se ne fosse venuti a conoscenza personalmente.


8.7


E si sappia che questo è il caso anche riguardo a qualcuno che è pubblicamente riconosciuto come un malvagio a causa di altre trasgressioni per le quali è permesso biasimarlo (si consultino nel Pozzo d’Acqua Vivente le condizioni necessarie). E cosa si intende per “pubblicamente riconosciuto”? Qualunque individuo che gli abitanti della città concordano nel definire “malvagio”, al punto di non avere alcun dubbio (per vie delle brutte voci che spuntano sempre su di lui riguardo ai [suoi] atti di depravazione e cose simili, [cattive] azioni il cui divieto è noto a tutti gli ebrei). Ma se è emersa su di lui una voce isolata è vietato basarsi su di essa per condannarlo, che D-o ce ne guardi, e perfino crederci fermamente in cuor proprio, come spiegato in precedenza nella Regola 7. (E malgrado io abbia provato molto timore nell’includere questa norma, a causa dei maldicenti, i quali, appena sentito un brusìo su qualcuno, subito lo definiranno una persona pubblicamente riconosciuta come malvagia, ne diranno del male e avranno la pretesa che sia che questo testo a permetterlo – malgrado ciò non l’ho omessa, come [insegnato] dai nostri Maestri nel Talmud Bavli, trattato di Bava Batra 89b, riguardo a rabbi Yochanan ben Zakkay: «L’ha detto o non l’ha detto? Sì, l’ha detto, per via del versetto in Osea 14, 10: ‘Dritte sono le strade del Signore; in esse i giusti procedono, in esse i malvagi inciampano'.»)


8.8


E si sappia che ciò che alcuni pretendono, cioè che sia permesso dire lashon harà’ sui provocatori di zizzania, questo è vero soltanto quando si constata che rivelando a terzi la gravità dell’inganno che quegli altri ordiscono, e convincendoli del torto [di quei provocatori], in questo modo si mette a tacere la zizzania. Ma in qualunque altra circostanza, non c’è nessuna differenza [e si tratta di lashon harà’]. Inoltre, è necessario [che si verifichino] le seguenti condizioni:


  • Che si siano osservati in prima persona gli elementi per i quali si è stabilito che quelli sono dei seminatori di zizzania, senza attenersi a quanto appreso da terzi (a meno che non si sia accertato che la cosa sia vera);

  • Bisogna agire a fin di bene, come esposto in precedenza, anziché mossi dall’astio;

  • Se c’è un altro modo di sedare la lite senza dover parlare dei provocatori (per esempio rimproverandoli direttamente e così via), è vietato dire lashon harà’ su di loro – a meno che non si tema che rimproverandoli, i provocatori capiscano che chi li redarguisce non è dalla loro parte, saboteranno i suoi piani ed egli non potrà più rimediare alla cosa; ma in questo caso ci vuole molta ponderatezza, e non bisogna affrettarsi a concludere che i membri di una delle fazioni siano i responsabili della zizzania: bisogna distinguere attentamente, secondo i criteri della Torà, chi sono i [veri] provocatori. Ed è meglio che un osservatore che non riesce a stabilire personalmente chi abbia ragione si astenga dall’intervenire.

8.9


E si sappia anche che è altresì vietato umiliare e insultare i morti. E i poskim* hanno scritto che ci sono un decreto e un anatema di antica data contro lo scherno e la diffamazione dei morti. E tutto ciò vale anche se il morto era un ignorante, e, a maggior ragione, chi umilia un talmìd chakhàm* commette un peccato criminale e merita il niddùy [l’allontanamento], come sancito nello Shulchan 'Arukh (Yorè Deà 243, 7). E il divieto di umiliare un talmìd chakhàm vale perfino quando si offende la sua persona, e, a maggior ragione, quando l’ingiuria è rivolta alle sue parole di Torà.


8.10


E ora si chiarirà davanti a chi è vietato dire lashon harà’. Si sappia che il divieto di raccontare non contempla nessuna distinzione, sia che si racconti ad altre persone, vicine o lontane, sia alla propria moglie – a meno che non si tratti di qualcosa che si deve raccontare per il beneficio futuro che ne deriverà: per esempio quando [la moglie] concede prestiti a persone malevole, da cui sarà poi difficile riscuotere [il denaro prestato], e per questo [il marito] le rivela la loro indole malvagia e l’avverte di non accordare loro alcun credito. E così pure quando si confida al proprio socio che non si ritengono degne di fiducia certe persone, e così di seguito (alla stregua di quanto detto nel Talmud Bavli, Kiddushìn 52b: «Che non entrino gli allievi di rabbi Meìr, perché sono rissosi: non vengono per studiare la Torà, ma per surclassarmi con la loro conoscenza della Legge»). E perfino se non se ne conosce personalmente l’indole malvagia, e se ne è solo sentito parlare, anche in questo caso è permesso raccontare alla moglie ciò che si è sentito su di loro e metterla in guardia in prospettiva futura – benché non sia permesso credere fermamente ciò che si è sentito, in ogni caso bisogna diffidare (ma in questo caso, che non glielo si racconti in modo che sia palese che si crede fermamente a quanto sentito; che le si dica soltanto: “Ho sentito dire questo e quest’altro su costui, perciò stai attenta a non fargli credito”). Ma nel caso contrario, non c’è nessuna differenza [ed è vietato].


(E molti si sbagliano e raccontano alle loro mogli tutto ciò che è successo con questa o quest’altra persona nella Casa di studi o al mercato. Ed ecco che in questo modo, oltre al divieto di lashon harà’, si alimenta la discordia, perché [la moglie] serberà certamente rancore e litigherà con quel tale o con i suoi familiari, e inoltre istigherà [il marito] a tornare a litigare con quell’altro sullo stesso argomento, e alla fine lei stessa lo offenderà per quella vicenda; perciò chi ha cura di sé stesso si guarderà rigorosamente dal rivelare alla moglie queste faccende).


8.11


E non c’è differenza nel divieto nemmeno se si racconta a persone lontane dall’individuo di cui si parla, o a persone a lui vicine. E perfino se [si racconta qualcosa] al proprio padre riguardo al proprio fratello, anche questa è lashon harà’ completa. Ed è vietato perfino se l’intenzione del racconto è che i parenti lo rimproverino a questo riguardo, perché si sarebbe dapprima dovuto rimproverarlo a quattr’occhi, anziché denunciarne subito il misfatto. A meno che non si preveda che il proprio rimprovero non avrebbe effetto, nel qual caso è permesso.


8.12


E si sappia che il divieto di lashon harà’ vale perfino se si esprime la critica davanti a un ebreo, e, a maggior ragione, se l’interlocutore non è ebreo, perché [in questo caso] il peccato è molto più grave e infatti in questo modo, oltre a macchiare l’onore di un ebreo e profanare l’onore divino, si provoca anche un grosso danno al prossimo: infatti, se si critica qualcuno davanti a un interlocutore ebreo, questi non deciderà subito in cuor suo che ciò che gli viene raccontato è vero. Ma se si critica un ebreo davanti a un non ebreo, e si racconta che quell’ebreo è un imbroglione, che raggira il prossimo e così via, [l’interlocutore non ebreo] accetterà subito quanto detto e lo divulgherà pubblicamente (e un’idea simile è espressa nel commento Tosafòt al Talmud Bavli, Bava Batra, 39b, laddove è spiegato il rapporto tra lashon harà’ e protesta, si consulti colà), causandogli danni e afflizione. E, a maggior ragione, se si va a denunciare un ebreo presso i non-ebrei, il peccato è certamente insostenibile, perché si viene a far parte della categoria dei delatori, la cui punizione è uguale a quella degli eretici e di coloro che negano la Torà e la resurrezione dei morti, e per loro è scritto nel Talmud Bavli (Rosh Hashanà 17a): «Scenderanno nel ghehinòm* e lì verranno giudicati per le generazioni [..], il ghehinòm può esaurirsi ma essi non si esauriscono», perciò ogni ebreo deve evitare questa cosa nel modo più assoluto. E chi trasgredisce questo [divieto] e denuncia

[Com’è noto, ci sono persone che assoldano dei testimoni e accusano il prossimo ingiustamente davanti a giudici non ebrei, per estorcere denaro con la menzogna e con la frode.]

un ebreo presso di loro, è come se avesse insultato, offeso e assalito la Torà di Moshè, nostro Maestro, che la pace sia su di lui, e così come è sancito dallo Shulchan 'Arukh (Choshen Mishpat 26, 61).


8.13


E ora si spiegherà la norma riguardante l’accettazione della lashon harà’.


[E dopo che D-o mi ha aiutato in questa Regola a chiarire diversi aspetti di questa legge, ho deciso di spiegare ancora un punto, malgrado esso non sia inerente al soggetto di questo libro, dedicato al divieto di lashon harà’; [e] non mi astengo dal farlo perché si tratta di un errore commesso da molte persone: quando lo spirito malvagio provoca una persona a schernire qualcun altro, gli suggerisce anche di non esprimere chiaramente l’argomento dello scherno e della derisione, affinché quell’altro non gli risponda per le rime; e inoltre i presenti lo giudicheranno astuto soltanto se riuscirà a esprimere la questione con arguzia, cioè in modo che la sua intenzione non possa essere capita se non dopo [una certa] riflessione, affinché quell’altro si trovi umiliato e avvilito, non potendo difendersi immediatamente. E inoltre, quando la cosa sarà risaputa, verrà considerato astuto da tutti. Ed ecco, se veniamo a calcolare il conto dei peccati di questo derisore, essi sono incalcolabili: a) il peccato della buffoneria; b) il peccato dell’inganno, come spiegato nel Libro delle Mitzvot di Rambam (precetto 251). E spesso egli compie quest’azione in presenza di molte persone, e rientra così nella categoria di coloro che fanno impallidire il prossimo in pubblico2. E altri peccati ancora, si consulti l’introduzione. E su questo derisore si applica il versetto (Proverbi 12, 18): «C’è chi è tagliente come colpi di spada». E chi acclama questo provocatore dicendo che si è espresso con arguzia, anch’egli offende il Signore: non solo si astiene dalla mitzvà* di rimproverare, rinfacciandogli quella spregevole impertinenza, ma addirittura lo elogia per averla detta? E riguardo a questi tipi dicono i Proverbi (24, 24): «Colui che dice al criminale ‘sei un giusto’, i popoli lo malediranno e le genti lo detesteranno». Ed egli rientra nella categoria di chi adula i perversi e incoraggia i peccatori. E di persone così è detto (Geremia 4, 22): «Sono bravissimi a fare del male, ma non sono capaci ad agire nel bene».]

L’accettazione della lashon harà’, contro cui ci ha messo in guardia la Torà, significa credere in cuor proprio che la cosa [di cui si è sentito parlare] sia vera. E non c’è bisogno di dilungarsi a definire colui che accetta, né la persona su cui si accetta, perché non c’è bisogno di quasi nessuna distinzione. Anzi, in breve, la regola generale è la seguente: a ogni ebreo è comandato di non accettare la lashon harà’ su nessun ebreo ad eccezione degli eretici, dei delatori e dei loro simili, cioè coloro che si sono estromessi dalla categoria “tuo prossimo”.


8.14


Riguardo all’accettazione della lashon harà’, non c’è differenza neanche tra il caso in cui la si è sentita dai genitori o da altri familiari e il caso in cui è stata espressa da altre persone. Ed ancor di più abbiamo trovato nel Tana Devè Eliahu (cap. 21), che se si osserva uno dei propri genitori dire qualcosa di troppo, come lashon harà’ o cose simili, non solo si è avvisati di non crederci, ma si deve anche impedire loro questo [atto] (però si faccia attenzione a farlo con rispetto, come esposto nel Pozzo d’Acqua Vivente). E se si tace, sia lui che loro ricevono una grande punizione per questo motivo. Ed è detto nel Talmud Bavli, Shabbat 54b, che chi ha la possibilità di rimproverare i propri familiari [per una loro mancanza, e si astiene dal farlo], nel mondo futuro sarà punito per il loro peccato. Perciò si deve avere la costante abitudine di rimproverare i membri della propria famiglia riguardo a questo tipo di cose - e ciò soltanto con linguaggio garbato - e ricordare loro la gravità della punizione che si riceve nel mondo futuro, e la magnitudine della ricompensa [destinata] a chi se ne astiene. E più di tutto, si presterà sempre la massima attenzione a non profferire mai alcuna critica del prossimo davanti ai propri familiari, perché se si viene personalmente meno a questo principio, oltre al divieto in sé, si provoca anche un grosso guaio riguardo a questo problema, perché non si potrà più dire niente per impedire loro [di commettere questo peccato]. E nella maggior parte dei casi i membri della famiglia hanno l’abitudine di attenersi, su argomenti come questo, alla condotta del capofamiglia stesso, perciò ognuno deve prestare moltissima attenzione, e si otterrà il bene in questo [mondo] e in quello futuro.


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Note dei traduttori:
[1] Il termine originale chiddùsh significa letteralmente “novità”, e va collocato nel contesto di un principio importante della letteratura rabbinica, e cioè quello di evitare di ripetere un concetto già espresso o comunque già noto. Da qui nasce l’esigenza di un insegnamento originale specifico a ogni nuovo paragrafo, senza il quale non ci sarebbe motivo di includerlo. Per esempio, la domanda “qual è il chiddùsh di questo passaggio?” è una delle più frequenti nello studio dei testi dei nostri Maestri dall’epoca del Talmud fino ai nostri giorni.
[2] Per i quali i nostri Maestri hanno insegnato (Avot 3, 11) che non hanno accesso al mondo futuro.


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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
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