Leggi della Maldicenza - Chafetz Chaim Precetti Positivi - Rabbi I. M. Hacohen Kagan


BS"D


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Traduzione di Ralph Anzarouth e Raphael Barki


Lashon Harà: Precetti Positivi


E ora ci accingiamo, con l’aiuto di D-o benedetto, a spiegare alcuni precetti positivi che vengono trasgrediti quando si racconta lashon harà' e rekhilut, come ci siamo proposti in precedenza, e cominciamo questo argomento con l’aiuto della mia rocca e redentore. Il delatore del prossimo, oltre ai divieti elencati in precedenza, trasgredisce anche alcuni precetti positivi, e con l’aiuto di
D-o benedetto essi verranno spiegati uno a uno.

  1. Si trasgredisce in questo modo il precetto positivo di (Deuteronomio 24, 9) «Ricorda ciò che ha fatto il Signore tuo D-o a Miriàm durante il cammino ecc.», con il quale la Torà ci ha avvertito di ricordare sempre verbalmente la grande punizione che ha inflitto D-o benedetto alla profetessa, Miriàm la giusta, che ha parlato soltanto di suo fratello che amava quanto sé stessa, e l’ha cresciuto sulle sue ginocchia, e si è messa in pericolo per salvarlo dalle acque, e non l’ha redarguito se non comparandolo agli altri profeti, e non ha parlato davanti a lui mettendolo in imbarazzo, e nemmeno in pubblico, bensì in disparte con il suo santo fratello [Aharòn], e Moshè non se n’è offeso, com’è scritto (Numeri 12, 3): «E l’uomo Moshè è molto umile» – e, ciononostante, tutte le sue buone azioni non sono bastate ed è stata punita con la lebbra. A maggior ragione le altre persone, gli stolti che tengono ripetutamente grandi discorsi sul prossimo, verranno di certo severamente puniti per questo.

  2. E si trasgredisce con questo racconto anche il precetto positivo di (Levitico 19, 18) «Ama il tuo prossimo come te stesso», col quale ci è stato ingiunto di fare attenzione ai beni del prossimo così come si fa attenzione ai propri; e di fare attenzione all’onore del prossimo e dirne del bene, così come si fa attenzione al proprio onore. E colui che dice lashon harà' e rekhilut del prossimo, o che l’accetta, anche se si tratta di verità, dimostra senza ombra di dubbio di non amarlo per niente, e quindi a maggior ragione non rispetta il precetto «[Ama il tuo prossimo] come te stesso».
    E la prova suprema di questo è che ognuno conosce i propri difetti, e malgrado ciò, non si vuole assolutamente che gli altri ne scoprano nemmeno uno su mille. E se succede che appena una piccola parte dei propri difetti si renda nota a qualcun altro, e che questi lo racconti ad altri, malgrado ciò ci si aspetta e si spera che magari D-o farà sì che le sue parole non verranno accettate e nessuno gli crederà; e tutto ciò per non apparire agli altri un uomo poco onesto; e questo nonostante si sappia di avere moltissime pecche, ben più di quante siano state divulgate da quell’altro! Eppure, l’immenso amore che si prova per sé stessi fa sì che tutti questi argomenti siano respinti. Secondo la Torà, proprio così bisogna agire nei confronti degli altri: aver cura del loro onore in ogni modo.
    E non a caso la Torà ci ha tramandato la vicenda di Noè (Genesi 9, 21-22): «Egli bevve, si ubriacò, e si denudò [...] e Cham vide [...] e Shem e Yàfet coprirono la nudità del loro padre», e la Torà ci ha anche raccontato la benedizione con la quale Noè li benedisse e che infine si avverò – per mostrarci quanto sia grande questa virtù, per la quale si devono occultare le carenze del prossimo con tutte le proprie forze, così come si fa riguardo ai propri difetti.

  3. E a volte si trasgredisce anche il precetto positivo di (Levitico 19, 15) «Giudica il prossimo con benevolenza». Per esempio, quando si vede qualcuno esprimere un’affermazione o compiere un atto che possano essere interpretati positivamente e a suo favore, oppure al contrario: anche qualora si tratti di un benonì*, la Torà ci impone questo precetto positivo, [e cioè] di giudicarlo favorevolmente (e se si tratta di un uomo timoroso di D-o siamo tenuti a giudicarlo favorevolmente anche nei casi in cui gli elementi a carico sono più pesanti di quelli a favore). E chi ne dice del male per via di quell’affermazione che ha detto o di quell’atto che ha compiuto, e anche chi [ascolta il biasimo e] lo accetta, rinforzando dentro a sé il disprezzo verso la persona di cui ha sentito parlare, anziché giudicarla favorevolmente, trasgredisce questo precetto positivo.

  4. E se con questo racconto di lashon harà' o di rekhilut si danneggia il prossimo, al punto da fargli perdere i mezzi di sostentamento, per esempio quando qualcuno, istigato dal suo cuore malvagio, fa sapere in giro che una certa persona non è degna di fiducia; o se quella persona fa un [determinato] mestiere, e si dice di lui che non è adatta a quel mestiere; in tutti i casi di questo tipo si trasgredisce anche il precetto positivo (Levitico 25, 35): «E lo aiuterai, anche se è un convertito o un residente, e vivrà con te» e più avanti (v. 36) «E tuo fratello vivrà con te» – con questo precetto la Torà ci comanda di aiutare l’ebreo che si sta impoverendo, elargirgli un dono o un prestito, associarsi a lui o trovargli un lavoro affinché si risollevi e non venga a cadere e dipendere [dalla tzedakà*] degli altri, e a maggior ragione ci è ordinato di non arrecargli la perdita dei suoi mezzi di sostentamento.

  5. E a volte, accettando la lashon harà' e la rekhilut, si trasgredisce anche il precetto positivo di (Levitico 19, 17) «Rimprovera il prossimo». Per esempio, se ci si accorge che qualcuno sta per raccontarci una maldicenza, e si sa che egli accetterebbe la nostra obiezione, perfino se non se ne ha la certezza assoluta, si è tenuti dalla Legge a rimproverarlo, affinché non porti a termine il peccato. Perciò, se lo si lascia completare la maldicenza nei confronti del prossimo, si infrange certamente questo precetto positivo.
    [Ed è anche contrario alla Legge decidere durante l’ascolto di rimproverare il maldicente alla fine del racconto: è forse possibile vedere un amico ebreo che sta mangiando maiale, che D-o ce ne liberi, e lasciarlo mangiare, basandosi sull’intenzione di redarguirlo alla fine? È chiaro che la Legge impone di redarguirlo immediatamente, forse accetterà il rimprovero e smetterà di mangiare, poiché ogni misura di kazàit mangiata è un peccato a sé stante1. Ed è così anche nel nostro argomento, ogni espressione di biasimo rappresenta una trasgressione a sé stante. A meno che non si veda che lasciandolo terminare il discorso, si potrà agevolmente convincere gli astanti (in virtù del discorso stesso) che si tratta di diffamazione e niente più; oppure a volte la Legge dice di lasciarlo terminare il discorso perché si tratta di informazioni che bisogna conoscere per mettersi in guardia (come verrà spiegato in seguito, se D-o vorrà, nelle Leggi della Maldicenza, Regola 6).
    Ma se si vede che si tratta solo di offese gratuite verso qualcuno, o soltanto di lazzi e pagliacciate sul prossimo, è certo che chi rimprovera subito ed evita all’altro questo [peccato] compie una grande
    mitzvà*, e questo perfino quando ci sono altre persone presenti oltre a lui. E per quanto riguarda «[Non porre un ostacolo] davanti a un cieco», si consulti il Pozzo d’Acqua Vivente (Precetti Negativi, par. 4).]

  6. E tutto ciò che si è detto finora vale perfino se il biasimo è stato espresso in privato, ma se ci si aggrega ad una banda di mascalzoni e maldicenti per poter sparlare di qualcuno insieme a loro, o per ascoltare le loro maldicenze, si trasgredisce anche il precetto positivo di (Deuteronomio 10, 20) «Attàccati a Lui», e i commenti dei nostri Maestri su questo precetto (Talmud Bavli, Ketubot 111b) vengono a [insegnare ad] attaccarci ai Maestri della Torà e a tenerci assiduamente in loro compagnia in tutte le occasioni possibili, perfino a mangiare e bere con talmidè chakhamìm*, a commerciare con loro e a connettersi a loro in ogni modo possibile, e ciò al fine di imparare dalle loro azioni. E perciò, certamente, chi fa il contrario di questo e si aggrega a una banda di balordi trasgredisce questo precetto positivo.
    [E, a maggior ragione, come accade di frequente a causa delle nostre molte colpe, durante il santo shabbat, dopo il terzo pasto, quando alcune compagnie di studiosi si riuniscono e ovviamente discutono delle parole del D-o Vivente; altre persone discutono di vanità terrestri e sulle loro lingue si avvicenderanno certamente maldicenze, lazzi e pagliacciate. Quindi, chi si discosta dagli studiosi di Torà e presta orecchio a [ciò che dice] quella banda di cialtroni per sentirne i frivoli racconti – trasgredisce questo precetto positivo, oltre alla trasgressione di «Non seguire la moltitudine per fare del male», come esposto in precedenza tra i precetti negativi al par. 11, e si consulti colà quanto esposto a questo riguardo nel par. 4, a nome del testamento di rabbi Eliezer il Grande.
    E perfino quando non ci sia qualcuno [di valido] a cui aggregarsi, è una grande
    mitzvà* di tapparsi la bocca e sedersi in disparte, anziché unirsi a quelle malvagie congreghe, come dissero i nostri Maestri: «Ogni istante in cui l’uomo tiene la bocca chiusa lo rende degno della luce nascosta che nessun angelo o creatura possono immaginare».]

  7. E quanto detto [vale] perfino se non ci si trova in un bet midràsh* (casa di studio); ma quando si dicono lashon harà' e rekhilut nel bet midràsh o in sinagoga, si trasgredisce pure il seguente precetto positivo (Levitico 19, 30): «Abbiate timore del Mio santuario» – e il nostro bet midràsh è considerato [anch’esso] un santuario, come lo spiegano i poskìm*, e in questo versetto ci è ingiunto di provare timore per Colui che vi dimora; perciò nel bet midràsh non si fanno i conti se non quelli che riguardano i precetti [della Torà], come i fondi di beneficenza e così via. E, a maggior ragione, nel bet midràsh son vietati lazzi, frivolezze e chiacchiere inutili, e a questo fine nessuna condizione2 è in grado di cancellare questa restrizione, come è spiegato nello Shulchan 'Arukh (Òrach Chaìm, 151, 11). E, a maggior ragione, è vietato dire in questi luoghi lashon harà' o rekhilut per il timore di D-o Santo che vi è presente, oltre al grave divieto di per sé stesso; e il fatto di sparlare [proprio là] dimostra che non si crede che il Santo, benedetto Egli sia, sia presente in quella casa, e perciò si osa perfino avere l’arroganza di parlare nella reggia contro il volere del re.
    [E questo è il testo dello Zòhar, Parashà di Terumà: «Chi profferisce in sinagoga parole profane: povero lui, perché dimostra un distacco! Povero lui, che riduce la fede! Povero lui, che non aderisce al Signore d’Israèl! Poiché in questo modo egli prova che non c’è D-o, che non si trova in quel luogo, se ne dissocia , non Lo teme, e si comporta in modo ingiurioso nei confronti della riparazione celeste.»]

    E perfino coloro che studiano regolarmente nel bet midràsh, e a cui è permesso mangiare e bere al suo interno, come è spiegato nello Shulchan 'Arukh (Òrach Chaìm, 151, 1), perfino loro, se commettono l’infrazione di pronunciare lazzi, amenità, lashon harà' e rekhilut all’interno del bet midràsh, trasgrediscono il precetto positivo: «Abbiate timore del Mio santuario», oltre al divieto stesso [di lashon harà' e rekhilut], come ha detto il Maghèn Avrahàm [Òrach Chaìm, 151, 2]: «E forse che i talmidè chakhamìm non sono tenuti ad avere timore del santuario? [Infatti] è permesso loro unicamente di mangiare e di bere, e questo soltanto perché studiando essi nel bet midràsh, dovrebbero uscirne per mangiare e bere, trovandosi quindi a sprecare tempo [utile] allo studio», si consulti colà nel Maghèn Avrahàm. E quanto alle chiacchiere ordinarie, quelle che non trattano di pagliacciate, quando si tratta di talmidè chakhamìm* nel bet midràsh, si consulti quanto scritto con l’aiuto di D-o nel terzo volume3.
    [E visto che stiamo trattando del grave divieto di parlare di argomenti vani in sinagoga, ho deciso di trattare dell’enorme pericolo che questo atto provoca. E infatti è frequente, a causa delle nostre molte colpe, che uno cominci a raccontare al vicino i fatti suoi, mischiati a lashon harà' e rekhilut dall’inizio alla fine – prima della lettura della Torà; l’assemblea comincia la lettura della Torà quando il racconto non è ancora finito, e l’istinto malvagio lo provoca a non lasciare la storia a metà ed a continuare la sua lashon harà' durante la lettura. E spesso si tratta di una della persone importanti, che occupano i posti orientali della sinagoga4 ed il suo peccato è osservato da tutti, ed in questo modo profana D-o in pubblico, cioè davanti a dieci ebrei, ed il suo peccato è ben più grave di una semplice profanazione di D-o, come è spiegato nel Sefer Hamitzvot di Rambam (Precetti Negativi, par. 3, si consulti colà), e trasgredisce pure il divieto «Non profanate il Mio Santo Nome».]
    E si veda ora quanti divieti ha trasgredito costui: a) il divieto di
    lashon harà' e rekhilut, che già de sé include [la trasgressione di] parecchi precetti negativi e positivi; b) il divieto «Non profanate il Mio Santo Nome» davanti a dieci ebrei; c) ha negletto la lettura della Torà. Perfino se gli è mancato un solo versetto o perfino una sola parola, si tratta di un peccato criminale e una colpa insostenibile, ed è detto perfino di chi esce durante la lettura «Coloro che abbandonano D-o svaniranno», come esposto nel Talmud Bavli, trattato di Berakhot (foglio 8a). A maggior ragione per costui, che sta in sinagoga e la cui voglia di chiacchiera e di maldicenza lo distolgono dall’ascoltare le parole di D-o Vivente.
    E quante volte ciò succede di shabbat, in cui il peccato è molto più grave che negli altri giorni, come è spiegato in diversi libri santi; e a volte è successo a chi ha l’abitudine di parlare in sinagoga o nella casa di studi di terminare il proprio racconto perfino durante il
    Kaddish, impedendo in questo modo a sé stesso di dire “Amèn Yehè Shemè Rabà”, formula la cui pronuncia ha un valore altissimo secondo il Talmud, come hanno detto i nostri Maestri: «Perfino chi ha una punta di eresia, lo si perdona.» E [invece] perfino chi risponde, se non risponde in tempo è un Amèn troncato e, che D-o ce ne guardi, i suoi figli saranno orfani per questo motivo, poiché perfino se l’Amèn è ritardato soltanto dalla pigrizia si incorre in questa maledizione, come si capisce dai poskìm*. E a maggior ragione costui, che neglette l’ “Amèn Yehè Shemè Rabà” a causa delle sue lashon harà' e rekhilut.
    E soprattutto, trasgredisce nel contempo un quarto divieto, e cioè [quello di condurre] chiacchierate futili in sinagoga o nella casa di studi, che è un divieto grave, spiegato nello
    Shulchan 'Arukh e, come esposto in precedenza, si applica a maggior ragione alla lashon harà' ed alla rekhilut. E guai a chi racconta ed a chi ascolta! E il Gaòn di Vilna ha già scritto nella sua santa lettera Alìm Litrufà (Erbe Curative)5 che per ogni chiacchiera si è condannati a scendere nelle abissali profondità degli inferi, e non si possono calcolare i guai ed i tormenti che si soffrono per ogni singola chiacchiera, e non se ne perde nemmeno una, si consulti colà.]

  8. E se si dice lashon harà' o rekhilut di un anziano, e lo si è criticato così in sua presenza, perfino se questo anziano è un ignorante, si trasgredisce il precetto positivo (Levitico 19, 32): «Rispetta l’anziano» (e anche se l’anziano di cui parla la Torà è il saggio erudito, i nostri Maestri spiegano che l’obbligo del rispetto si riferisce anche alla parola “canizie” inclusa nella frase precedente). Perché il rispetto si dà onorando con parole, cioè parlando all’anziano con riguardo e deferenza. E quando lo si critica, chiaramente non lo si rispetta. E pure se si tratta di un saggio, anche se non anziano, si trasgredisce questo precetto positivo, perché l’anziano di cui parla la Torà è il saggio erudito, come abbiamo spiegato, e cioè “colui che ha acquisito la Torà” (e inoltre, così facendo a volte si ricade nel grave divieto di umiliare i talmidè chakhamìm* con il quale, secondo la Legge, si rientra nella categoria degli eretici, e questo argomento verrà esposto a lungo più avanti, se D-o vorrà). E se si tratta di un anziano che è anche un saggio, si trasgredisce doppiamente il divieto di «Rispetta l’anziano».

  9. E se l’oggetto della maldicenza è un kohèn e lo si critica in sua presenza, si trasgredisce anche il precetto positivo (Levitico 21, 8): «E lo santificherai», con il quale ci è ingiunto di trattare [i kohanìm] con molto rispetto. E chi dice lashon harà' o rekhilut di un kohèn e lo umilia, in questo modo certamente non lo tratta con rispetto e [quindi] commette una trasgressione.

  10. E se si tratta del proprio fratello maggiore, o del marito della madre, o della moglie del padre, si trasgredisce anche il precetto positivo di onorare [i genitori], perché [questi gradi di parentela] vengono aggiunti per via della particella “veèt”6, come è insegnato nel Talmud Bavli (Ketubot 103a). E a maggior ragione se, D-o ce ne liberi, [si sparla] proprio dei propri genitori, allora certamente si trasgredisce il precetto positivo di onorare il padre e la madre. Ed in più si trasgredisce anche (Deuteronomio 27, 16) «Maledetto chi disprezza suo padre e sua madre», che D-o ce ne guardi.

  11. E più di tutto si trasgredisce il precetto positivo (Deuteronomio 6, 13) «Temi il Signore tuo D-o», con il quale ci viene ingiunto di provare timore al cospetto di D-o benedetto nel corso di tutta la nostra vita. E quando ci si trova di fronte a una prova, ci è imposto di spronare il nostro spirito in quel frangente a capire che il Santo, benedetto Egli sia, osserva ogni atto degli esseri umani, e rende loro la pariglia secondo la malvagità delle loro azioni; e in questo modo si evita di violare la volontà del nostro Creatore, e certamente chi abbandona il proprio animo a questo grave peccato di lashon harà' e rekhilut infrange questo precetto positivo.
    [E già che si tratta di questo precetto, ho risolto di avvertire anche riguardo a ciò che è frequente, a causa delle nostre molte colpe: trasgredire il divieto di pronunciare il nome di D-o invano, che deriva da questo precetto positivo, come spiegato nel Talmud Bavli, Temurà (4a)7. Ossia, si vede a volte qualcuno indignato da un atto contrario alla regola della Torà (che sia nei confronti di D-o o nei confronti del prossimo); ed è frequente, a causa delle nostre molte colpe, che i maldicenti glielo rinfaccino poi con scherno: «Guardate quello, anche lui si è vestito dei panni del timore [di D-o] e anch’egli combatte la battaglia del Signore Tzeva-òt, eppure egli stesso è un peccatore ancora più di quell’altro», e [si aggiungono] tante altre chiacchiere su di lui.
    Ed ecco, su questo cialtrone si può veramente dire che un peccato tira l’altro, perché per via del gravissimo divieto di
    lashon harà' si è spinto fino al pronunciare il nome di D-o invano, come stabilito nello Shulchan 'Arukh (Yorè Deà, 276, 9), che Tzeva-òt è anch’esso uno dei 7 nomi [di D-o] che è vietato cancellare. E il nome Tzeva-òt, perfino senza il nome di D-o [accanto], è anch’esso un nome di per sé stesso, e ne è la prova il Talmud Bavli, Shevuot (35a), nella Mishnà: «Vi faccio giurare […] per Tzeva-òt», e questa affermazione non è contestata poi nella Ghemarà, si consulti colà. Ed è noto il detto dei nostri Maestri riguardo alla gravità della punizione per chi pronuncia il nome di D-o invano, che per questo motivo è passibile di scomunica e si impoverisce, che D-o ce ne guardi, com’è scritto nel Talmud Bavli, Nedarìm (7b), si consulti colà. Perciò chi ha premura di sé si allontani molto da questo [peccato].]

  12. E soprattutto, mentre si racconta lashon harà' e rekhilut, si trasgredisce il precetto positivo di studiare la Torà, che è un precetto positivo a sé stante, come spiegato nel Mishnè Torà di Rambam (Regole dello Studio della Torà, cap.1) e nel suo Libro delle Mitzvòt (precetto positivo 11), e in tutte le liste che enumerano le mitzvòt*. E la ricompensa per questo precetto positivo è illimitata, poiché equivale alla somma di tutte le altre, come spiegato nella Mishnà, Peà (1, 1), e nel Talmud Yerushàlmi, Peà (1, 1), che le mitzvòt tutte assieme non valgono quanto una parola di Torà, e anzi, la punizione per chi la tralascia equivale alla somma di tutti i peccati, come hanno detto i nostri Maestri (Introduzione a Ekhà Rabbatì, par. 2): «Il Santo, benedetto Egli sia, ha sorvolato riguardo al peccato dell’idolatria, delle unioni proibite e dello spargimento di sangue, ma non riguardo al peccato [commesso] da chi trascura la Torà.»
    E a volte, in altri momenti, si può uscire dal giudizio celeste assolti da questo peccato, poiché si era concentrati sull’acquisizione dei mezzi di sostentamento o sulla riflessione circa il modo di acquisirli.
    [Ma anche qui bisogna prestare molta attenzione a non investire più tempo di quanto sia veramente necessario, e a non cedere allo spirito malvagio a questo riguardo, perché questi direbbe che tutto è necessario. Caro lettore, esamina e osserva come su questo argomento lo spirito malvagio oscuri i nostri occhi: perché non è forse tipico della natura umana, che quando qualcuno riceve dal prossimo (che è fatto di carne e ossa come lui) un favore disinteressato, o se si è un artigiano incaricato da un cliente di compiere un lavoro – più elevato è il compenso e più il primo si inchina ed è solerte nell’eseguire al meglio il suo compito? E invece, nel servizio del Re del mondo, nel quale siamo parimenti considerati dei salariati, secondo il detto dei nostri Maestri «Noi siamo dei salariati», lo spirito malvagio perverte il nostro cammino e lo rovescia completamente: più il Santo, benedetto Egli sia, aumenta i benefici e fa prosperare il commercio, più lo spirito malvagio induce a dire: “Ora, vista la ricchezza che D-o ti ha dato, sei obbligato ad abitare in una casa più bella, e a vestire abiti di lusso, comportarti come gli abbienti – e se non lo farai sarai messo alla berlina davanti ai tuoi amici, e perciò devi annullare questa volta il tuo studio regolare [della Torà] per viaggiare verso tale e tal posto al fine di fare quattrini”.
    E poi, dopo che il Santo, benedetto Egli sia, lo ha aiutato e lo ha elevato sulla vetta, lo spirito malvagio lo istigherà a intraprendere altri affari ancora. E quando non potrà più occuparsi personalmente di tutte queste attività, lo spirito malvagio gli mostrerà ancora un’altra necessità, e gli dirà: “Ora, con tutte queste attività che ti ha dato il Santo, benedetto Egli sia, devi assolutamente ingaggiare molte persone sotto la tua direzione, e assegnare a ognuno di loro il suo compito, affinché ti assistano negli affari, e tutta questa impresa apparterrà solo a te”. E giorno dopo giorno, le sue attività si moltiplicano e così pure i suoi grattacapi. In breve, la conclusione è che più il Santo benedetto Egli sia, aumenta la sua bontà verso di lui e gli prodiga il successo nelle sue imprese, più lo spirito malvagio lo provoca dimostrandogli la necessità di tralasciare la Torà e il servizio [di D-o], finché alla fine non gli lascerà neanche un momento, nemmeno per pregare insieme al pubblico; e lo spirito malvagio gli mostrerà durante tutto questo [percorso] che ciò è necessario per via della sua ricchezza, della sua posizione e delle sue molteplici attività, e farà finta di essergli veramente amico e di avere il suo bene come unica finalità, affinché non sia oggetto di scherno e di disprezzo presso i suoi amici lì in città qualora non ottenesse il maggiore dei successi.
    E riguardo all’
    olàm habbà, il mondo futuro, lo spirito malvagio lo abituerà ad accontentarsi, a essere il più povero dei poveri, a non avere nemmeno un posto per ripararsi dalle kelippòt (le forze impure), come hanno detto i nostri Maestri: «[Il versetto ‘La saggezza che] ha costruito la sua casa’ – si riferisce alla Torà ecc., perché chi ha acquisito parole di Torà ha costruito per sé una casa nel mondo futuro ecc.». Infatti, attorno al Gan Eden c’è il ghehinòm e perciò se, che D-o ce ne guardi, non si ha una casa nel Gan Eden, si è necessariamente, che D-o ce ne scampi e liberi, sotto l’influenza delle kelippòt, che D-o ci aiuti8. E dopo avergli consigliato in questo mondo con un volto amichevole di andare in giro con abiti di lusso, lo stesso spirito malvagio diventerà lì il suo accusatore [nel mondo futuro], affinché sia vestito di abiti lerci, tessuti con i suoi luridi peccati, come è spiegato nel [libro del profeta] Zekharià: «Giosuè [il kohèn] era vestito di abiti lerci e stava dinanzi all’angelo. […] Toglietegli gli abiti lerci di dosso ecc.» e come spiegato nei testi sacri. Perciò bisogna fare veramente tantissima attenzione [a distinguere] ciò che è veramente necessario e di cui non si può assolutamente fare a meno; mentre il resto verrà allontanato da sé.]

    Ma quando si racconta lashon harà' o rekhilut, che beneficio può avere ciò sull’ottenimento dei mezzi di sostentamento? E nel momento in cui si racconta [una maldicenza], si trasgrediscono pure vari divieti, come spiegato nel Semàg (Il Grande Libro dei Precetti, Precetti negativi, 13), si consulti colà, poiché la Torà ci ha avvertito con vari divieti di non allontanarci dal suo studio in alcun modo - perché si può, secondo le proprie possibilità, compiere un precetto positivo della Torà [ovvero studiarla]: chi è un grande studioso [studierà] secondo il proprio livello, e oggigiorno pure chi non è un grande studioso può comunque studiare libri sacri tradotti nella propria lingua9, come il Chovot Halevavot o il Menorat Hamaòr e via di seguito, libri che infondono nel cuore dell’uomo il timore del Santo, benedetto Egli sia – piuttosto che tralasciare la Torà per dire lashon harà' e rekhilut.
    E ho pure letto un testo del Gaòn di Vilna (Kol Eliàhu Chadàsh, Avot 3), che spiega cosa sono il din (la giustizia) e il cheshbòn (il calcolo)10: il din è il giudizio del peccato in sé, mentre col cheshbòn si calcola, al momento del giudizio, il tempo che si è impiegato a commettere il peccato e che si sarebbe potuto utilizzare per compiere una mitzvà*. E guai a noi, nel giorno del giudizio! Cosa risponderemo? Se il Santo benedetto Egli sia calcolerà – anche soltanto per i momenti in cui abbiamo detto vane futilità, insieme a critiche, frivolezze, delazioni e maldicenze – l’entità del peccato di tralasciare la Torà perfino solo in quei momenti - perché veramente con ogni parola di Torà che si studia si compie un precetto positivo a sé stante, e se si studia un capitolo di Mishnà o un foglio di Talmud si compiono centinaia di mitzvòt, come ha scritto il Gaòn di Vilna in Shenòt Eliàhu (Peà 1, 1, commento lungo) a nome del Talmud Yerushalmì – quindi si dovrà rendere conto di migliaia di parole sacre di Torà, ognuna delle quali è una grande mitzvà che si è cancellata con le proprie mani, e al suo posto si sono commessi migliaia di peccati di omissione del precetto positivo di studiare la Torà in quel momento specifico.
    [E come ha scritto Rabbenu Yòna nello Shaaré Teshuvà, che se si commette intenzionalmente e a più riprese perfino un solo atto contrario alla legge della santa Torà, [tutte le ripetizioni] vengono contate come peccati separati, e si veda nel Talmud Bavli, Makkot (21a), su un nazireo cui è stato detto “Non bere! Non bere!” [allorché gli è vietato di bere vino] ed è considerato colpevole per ognuno [degli avvertimenti], come se si trattasse di peccati separati. E quindi è chiaro che questo è il caso anche riguardo al precetto positivo di cui stiamo discutendo. E non è comparabile al caso [della mitzvà] di prendere il lulàv o [di suonare] lo shofàr e così via, perché in questi casi D-o ha ordinato [di compiere queste mitzvòt] una sola volta al giorno, ciò che non è il caso nel nostro argomento, perché [lo studio della Torà] è una mitzvà per ogni momento, e l’attimo precedente non esenta l’attimo successivo, e quindi chi si astiene [dallo studio] per diverse ore trasgredisce in ogni momento un precetto positivo a sé stante.]

    E ciò vale a maggior ragione se durante il tempo in cui si tralascia [lo studio] della Torà si dicono lashon harà' e cose simili, perché per ogni espressione di critica verso il prossimo si trasgredisce un divieto a sé stante, com’è detto nel Talmud Bavli, Makkot (21a): «Non indossare [un tessuto vietato] ecc. »11. E la stessa cosa [è detta] anche a nome di Rabbenu Yona. Ed ecco, se pure calcolassimo soltanto il peccato di omissione di Torà per ogni momento, insieme al peccato di dire lashon harà', vedremmo accumularsi sulla persona centinaia [di trasgressioni] di precetti negativi e positivi, e vi si aggiungerebbero anche molte altre [trasgressioni di] precetti negativi e positivi, come abbiamo spiegato a lungo finora, e perciò bisogna stare attenti alle chiacchiere futili come quelle.

  13. E tutto ciò che si è scritto finora vale perfino se si dice la verità sul prossimo, ma se nella lashon harà' o nella rekhilut si è immessa una miscela di bugie parziali, allora si trasgredisce anche il precetto positivo scritto nella Torà (Esodo 23, 7): «Allontànati dalla parola menzognera», e in questo modo si peggiora anche la categoria a cui si appartiene: [invece di “maldicenti”] adesso si viene definiti “diffamatori”, per i quali la punizione è molto più severa rispetto a quella prevista per chi dice semplicemente lashon harà' e rekhilut.

  14. Si osserva anche che si trasgredisce il precetto positivo di (Deuteronomio 28, 9) «Segui le Sue vie», con il quale ci è ordinato di emulare le virtù del Santo, benedetto Egli sia, che sono tutte positive, come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli, Shabbat (133b): «Così come Egli è misericordioso, anche tu sii misericordioso. Così come Egli è clemente, anche tu sii clemente». E così via per le altre virtù, come spiegato da Rambam nel Mishnè Torà (Hilkhot Deot, 1, 5-6). E sappiamo già che il Santo, benedetto Egli sia, con le sue sante e pure virtù, odia la delazione in ogni sua forma, e ciò perfino nei riguardi di una persona veramente infame, come hanno detto i nostri Maestri nel Talmud Bavli, Sanhedrin (11a): «E secondo te, io sarei un delatore?», riguardo al caso di Achàn, si consulti colà. Ed Egli vede le qualità positive, non quelle negative, come è detto nel Tanà Devè Eliàhu (cap. 1). E [i nostri Maestri] hanno detto nel Talmud Bavli, Sotà (42a): «Quattro categorie non ricevono la presenza divina: […] la cricca dei maldicenti, come è scritto (Salmi 5, 5) ‘Poiché non sei un D-o che desidera il male, il malvagio non trova rifugio presso di Te’.» E perciò chi si abitua a questo pessimo difetto non percorre le vie del Signore, che consistono unicamente nel fare del bene al prossimo, mentre costui fa il contrario, e per questo motivo il testo dei Salmi lo chiama “malvagio”, e quindi trasgredisce anche questo precetto positivo.

  15. Abbiamo quindi enumerato 14 precetti positivi che si suole trasgredire quando si dice lashon harà' e rekhilut, oltre ai 17 precetti negativi esposti in precedenza. E benché i 17 precetti negativi e i 14 precetti positivi non possono essere infranti da una sola persona con una sola chiacchiera, come è chiaro al lettore attento, ciononostante chi è abituato a questo pessimo difetto, che D-o ce ne scampi e liberi, col tempo li trasgredirà tutti, perché a volte gli capiterà di dire lashon harà' a proposito di un anziano, altre volte a proposito di un saggio, altre volte criticherà in presenza della persona interessata, altre volte in sua assenza, proprio come esposto in precedenza.


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    Note dei traduttori:
    [1] Kazàit è una misura fissata dai nostri Maestri riguardo a moltissime regole della cucina kashèr. Esistono vari pareri sulla misura del kazàit, ma ovviamente il suo valore esatto non ha rilevanza nell’argomento che stiamo trattando: basti capire che ogni misura di kazàit è un peccato a sé stante.
    [2] È uso corrente, durante la costruzione di nuove sinagoghe o case di studio, di porre una condizione per praticare al loro interno alcune attività non direttamente legate al culto (mangiare, bere, ecc.). L’Autore spiega che anche nei casi in cui questa condizione ha un valore halakhico effettivo, essa non può comunque rendere lecito alcun comportamento frivolo o indegno all’interno della casa del Signore.
    [3] È forse il caso di ricordare che questo testo fa parte del Chafètz Chaìm, una trilogia che comprende: (I) Leggi della lashon harà’, (II) Leggi della rekhilùt e (III) Shemiràt halashon. È a questo terzo volume, il cui titolo si potrebbe tradurre come Il Freno della Lingua (dalla taglia enciclopedica: 94 capitoli) che si riferisce l’Autore in questo richiamo. Che Dio benedetto ci dia un giorno il merito di completare la traduzione dell’intera opera…
    [4] Posti tradizionalmente attribuiti ai dignitari della comunità.
    [5] Si tratta della famosa Igghèret Hagrà, la lettera di morale del Gaòn rabbi Eliàhu di Vilna.
    [6] La tradizione dei nostri maestri insegna che l’aggiunta del prefisso veèt nel versetto in questione serve ad associare al comandamento di onorare i genitori anche quello di avere lo stesso riguardo per i parenti sopra elencati.
    [7] Per esempio, Tzeva-òt è uno dei nomi di Dio, come si vedrà in seguito, e va pronunciato solo quando permesso dalla Torà, per esempio durante la preghiera della Kedushà.
    [8] Sarebbe probabilmente poco appropriato tradurre Gan ’Eden con il termine ‘paradiso’ e ghehinòm con il termine ‘inferno’, ma è forse quanto di meglio si possa offrire in questo contesto al lettore che non avesse dimestichezza con la terminologia ebraica.
    [9] Il testo originale riporta “in lingua ashkenazita”.
    [10] Il termine ebraico din vecheshbòn significa rapporto, resoconto, esame dei fatti, e anche resa dei conti. Esso è composto dalle parole ‘giustizia’ e ‘calcolo’. L’Autore spiega qui la logica dietro la scelta di queste parole per la composizione di questo termine composito.
    [11] Questo passaggio del trattato di Makkòt discute ripetizioni di una sola e medesima trasgressione: in certi casi ogni ripetizione conta come un peccato a sé stante, rendendo quindi il conto complessivo degli oneri ben più gravoso.



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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Leggi della Maldicenza, Hafetz Haim, Rabbi Israel Meir Kagan, Edizioni Morashà, traduzione e note a cura di Ralph Anzarouth e Raphael Barki
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