Il Sentiero dei Giusti (Mesilat Yesharim) Ramchal: Rabbi Moshe Chaim Luzzatto - Capitolo 13: L'astinenza (Prishut)



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Traduzione di Ralph Anzarouth


L'astinenza


L'astinenza è l'inizio della devozione. Vedrai che tutto ciò che abbiamo spiegato finora è ciò di cui l'uomo ha bisogno per diventare uno Tzaddik [un giusto]; e a partire da questo capitolo tratteremo di ciò che è necessario per diventare un Chassid [un devoto]. E il rapporto tra astinenza e devozione è parallelo a quello che intercorre tra prudenza1 e zelo2: il primo richiede di astenersi dal male e il secondo di fare ciò che è bene3.


Infatti, il principio dell'astinenza consiste nell'applicare l'insegnamento dei Maestri, di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Yebamot 20a): "Santìficati in ciò che ti è permesso". E questo è il significato stesso del termine "astinenza": cioè, abbandonare qualcosa e allontanarsene, in altre parole vietare a sé stessi una cosa permessa; laddove l'intenzione insita in questa astinenza è di non incorrere nel divieto in questione4. L'intento è quindi quello di allontanarsi e di separarsi da qualsiasi cosa che potrebbe avere conseguenze negative (benché, al momento, ciò non sia ancora il caso e malgrado la cosa in sé non sia del tutto negativa).


E se osservi bene, vedrai che esistono 3 livelli:

  • le cose vietate;

  • le siepi5, cioè i decreti e le precauzioni che i nostri Maestri di benedetta memoria hanno sancìto per tutti gli Ebrei;

  • e le astinenze imposte a ogni Perush6: limitare il proprio campo d'azione personale e imporre a sé stesso dei limiti da non oltrepassare; in altre parole rinunciare a cose permesse, riguardo alle quali non vige nessun divieto per gli Ebrei in generale, allontanarsi da quelle cose e frapporre in questo modo una grande distanza tra sé e il male.


E se chiedi: perché dovremmo continuare ad aggiungere dei divieti, quando i nostri Maestri di benedetta memoria hanno detto (Talmud Yerushalmi, trattato Nedarim 9a): "Non ti basta ciò che la Torà ha già vietato? E tu vorresti aggiungere altri divieti?" Infatti, i Maestri di benedetta memoria hanno già preso provvedimenti riguardo alle cose per le quali con la loro saggezza hanno ritenuto necessario [di decretare] un divieto e una prevenzione speciale. E ciò che hanno tralasciato sono cose che hanno considerato degne di essere permesse e non vietate. Allora, perché dovremmo istituire nuovi decreti che i Maestri non hanno ritenuto necessari?


Per di più, non c'è limite a questo ragionamento: l'uomo ne rimarrebbe desolato e afflitto, senza alcun piacere in questo mondo; e i Maestri di benedetta memoria dissero (Talmud Yerushalmi, trattato Kiddushin, cap. 4) che in futuro l'uomo dovrà rendere conto davanti all'Eterno di ogni cosa che i suoi occhi hanno visto e che non ha voluto mangiare, malgrado ciò gli fosse permesso e che ne avesse la possibilità. E questo è accennato nel libro di Kohelet (Ecclesiaste 2, 10): "Non ho negato ai miei occhi niente di ciò che desideravano".


La risposta è che l'astinenza è necessaria e indispensabile; e i nostri Maestri di benedetta memoria hanno raccomandato [di adottarla]. Infatti, spiegando il versetto (Levitico 19, 2): "Siate santi", i Maestri dissero (Torat Cohanim 1, 1): "Astenetevi". E dissero pure (Talmud Bavli, trattato Taanit 11a): "Chi digiuna si merita l'appellativo di 'santo' e lo si deduce con un ragionamento logico dal [versetto sul] nazireo". E dissero anche (Pesikta Derav Kahana7, 6): "Il versetto (Proverbi 13, 25) 'Il giusto mangia per nutrire il proprio spirito' si riferisce a Hizkiyahu re di Giudea. Si diceva che gli venissero serviti tutti i giorni due mazzi di verdura e una libbra di carne; e che gli Ebrei lo deridessero dicendo: è questo un re?" E dissero anche (Talmud Bavli, trattato di Ketuvot 104a) del nostro santo Rabbi [Yehuda Hanassi] che in punto di morte drizzò le sue dieci dita e disse [al Signore]: "Tu sai bene che [...] non ho approfittato di questo mondo, neppure con il mio mignolo8." E dissero anche (Tana Deve Eliahu Rabba 26, 20): "Prima ancora di pregare affinché le parole di Torà penetrino nelle proprie viscere, bisognerebbe pregare che non vi entri ciò che si mangia e si beve9."


Tutti questi detti indicano esplicitamente la necessità e l'obbligo dell'astinenza. Ma allora dobbiamo quantomeno fornire una spiegazione riguardo a quei detti che insegnano il contrario. Il fatto è che in questo argomento ci sono ovviamente molti aspetti e parametri: c'è una astinenza che ci è comandata e c'è una astinenza che ci è stato raccomandato di evitare; ed è ciò che disse il re Salomone, che la pace sia su di lui (Kohelet 7, 16): "Non eccedere nello zelo10."


E ora spiegheremo quale sia il tipo di astinenza auspicabile. Infatti, ora che abbiamo capito che tutte le occorrenze di questo mondo sono delle prove per l'uomo, come già esposto e dimostrato in precedenza; e dopo che abbiamo accertato anche la grande debolezza dell'uomo e la sua propensione al male, ne consegue obbligatoriamente la necessità di cercare in tutti i modi di scampare a quelle occorrenze, per proteggersi meglio dai pericoli che le accompagnano. Infatti, non esiste un piacere di questo mondo che non porti con sé un peccato potenziale.


Per esempio: il cibo e le bevande, quando conformi a tutte le norme alimentari, sono permessi. Tuttavia, rimpinzarsi la pancia induce a scrollarsi di dosso la sottomissione [a Hashem], mentre scolare vino ha come conseguenze la dissolutezza e altri vizi. E a maggior ragione, chi si abitua a mangiare e bere a sazietà sopporterà malissimo una eventuale eccezione alla sua abitudine e per questo motivo si dedicherà con grande impegno al commercio e all'accumulo [di beni materiali], affinché la sua tavola sia sempre imbandita secondo la sua volontà; e così verrà indotto a macchiarsi di truffe e di malefatte, poi anche di spergiuri e di altri peccati che ne conseguono. E finisce per allontanarsi anche dal servizio di Hashem, dalla Torà e dalla preghiera; astenendosi fin dal principio da quei piaceri avrebbe evitato tutto questo.


E dissero qualcosa di questo tipo riguardo alla legge sul figlio ribelle (Talmud Bavli, trattato Sanhedrin, 72a): "La Torà ha capito in anticipo cosa diventerà il figlio trasgressivo e ribelle11: alla fine, dilapida il patrimonio di suo padre, non riesce più a ricordare ciò che ha studiato, si apposta a un bivio e deruba il prossimo".


E riguardo alle perversioni, [i Maestri] dissero (Talmud Bavli, trattato Sotà, 2a): "Chiunque veda una Sotà12 durante la sua disgrazia, si astenga dal vino."


E vedrai che questo è un validissimo stratagemma per l'uomo al fine di salvarsi dal proprio istinto, poiché data la difficoltà di sconfiggerlo quando si sta già compiendo il peccato, bisogna tenersene a distanza ben prima che ciò avvenga: in questo modo, il cattivo istinto troverà molto difficile spingere l'uomo alla trasgressione.


Per esempio, il rapporto coniugale con la moglie è assolutamente consentito, tuttavia già fu decretato l'obbligo del bagno rituale per chi avesse avuto emissioni seminali (Talmud Bavli, trattato Berakhot 22a), per evitare che gli studiosi13 frequentino le loro mogli [con l'assiduità] dei galli. Questo perché, malgrado l'atto in sé sia permesso, ciononostante esso imprime nell'animo dell'uomo questa tentazione, che può degenerare conducendolo a fare ciò che è vietato. Come dissero i Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Sanhedrin, 107a): "Esiste un membro nell'uomo che quando lo si sazia ha fame e quando lo si affama è sazio". E inoltre dissero di Rabbi Eliezer (Talmud Bavli, trattato Nedarim, 20b) che, perfino nei momenti [in cui i rapporti sono] consentiti e nei tempi [loro] appropriati, scopriva una spanna e ne ricopriva due e sembrava agitato da uno spettro14, per non trarre beneficio neppure dai propri momenti di piacere.


La Torà non ha richiesto che vestiti e ornamenti sfuggano ai canoni di bellezza o che abbiano una forma particolare, bensì che siano privi di composti vietati15 e che siano provvisti di Tzitzit16: questo è ciò che rende tutti gli indumenti permessi17; e ciononostante tutti sanno che gli abiti di lusso e i ricami conducono alla superbia e ai limiti della dissolutezza, oltre che all'invidia, alle tentazioni e alla frode, conseguenze degli acquisti dispendiosi. E già dissero i Maestri di benedetta memoria (Bereshit Rabba, cap. 22): "Quando vede un uomo che cammina con sussiego, si tocca gli abiti e si arriccia i capelli, l'istinto malvagio dice 'Costui mi appartiene!'"


Le passeggiate e le discussioni che non contengono trasgressioni sono certamente permesse dalla Torà. Eppure, quanto spreco di [tempo di studio della] Torà ne deriva, quanta maldicenza, quante bugie e quante pagliacciate! E dissero (Proverbi 10, 19): "In una moltitudine di parole non manca mai il peccato."


La regola generale è che, essendo tutte le attività di questo mondo portatrici di pericoli immani, colui che cerca una via di scampo e se ne allontana di frequente è certamente degno di lode. Questa è la forma corretta di astinenza: non fare nessun uso di questo mondo se non di ciò che è indispensabile perché necessario per natura. È di questo che si compiaceva Rabbi Yehuda Hanassi, come ricordato in precedenza, affermando di non avere mai tratto profitto di questo mondo neppure in misura del suo mignolo, malgrado la sua posizione di leader del popolo ebraico e che la sua tavola fosse simile alla tavola dei re, come si addice al suo rango. E i Maestri di benedetta memoria, riguardo al versetto (Bereshit 25, 23): "Ci sono due popoli nel tuo ventre" dissero (Talmud Bavli, trattato Avodà Zarà 11a): "Si tratta di Rabbi Yehuda Hanassi e Antoninus18, al cui tavolo non mancarono mai lattuga, zucchine e rape, né nella stagione del sole né in quella delle piogge".
E lo stesso si può dire anche per Chizkiyahu, re di Giudea. E tutti gli altri testi che ho citato sostengono e insegnano che l'uomo deve astenersi da ogni piacere di questo mondo, per non incorrere nei suoi pericoli.


E se tu chiedessi: se è dunque vero che questa attitudine è necessaria e imprescindibile, perché i Maestri non l'hanno imposta, così come hanno imposto [altri] decreti e disposizioni?


La risposta è chiara e semplice: i Maestri hanno imposto unicamente decreti che la maggioranza può rispettare, ma la maggior parte delle persone non possono diventare dei santi. È già sufficiente che siano dei giusti. Invece, compiere questi atti di santità che non sono alla portata degli altri spetta all'élite del popolo, cioè a quegli eletti che ambiscono a meritare la vicinanza di D-o benedetto e a estendere questo loro merito a tutto il resto della collettività che da loro dipende. E questi atti sono proprio le astinenze di cui parliamo, perché questa è la volontà di D-o: infatti, non essendo possibile che tutta la popolazione si trovi esattamente sullo stesso piano, per via dei diversi livelli di intelligenza degli individui, che si trovino perlomeno alcuni eletti che si dedicano a raggiungere un grado elevato di perfezione; e grazie a loro, anche quegli altri meno bendisposti meriteranno l'amore di D-o benedetto e la Sua Divina Presenza. Proprio come ciò che dissero i Maestri di benedetta memoria riguardo alle quattro specie che compongono il Lulav19 (Midrash Vaikra Raba 30, 12): "Che vengano questi e che espino per quegli altri". E abbiamo anche visto che Eliahu [Hanavi] di cara memoria disse a Rabbi Yehoshua ben Levi, quando questi gli rispose riguardo all'episodio di Ula bar Koshev20 (Talmud Yerushalmi, trattato Terumot 8, 4): "E non sarebbe questa la regola?" E anche lui gli rispose: "E sarebbe questa la regola per i devoti?"


Invece l'astinenza del tipo sbagliato è quella degli stolti che non si accontentano di astenersi di ciò di cui non hanno bisogno tra le cose di questo mondo, ma si privano anche dell'indispensabile e affliggono i loro corpi con tormenti e altre usanze fuori luogo che Hashem non desidera affatto. Al contrario, i Maestri hanno detto (Talmud Bavli, trattato Taanit 22b): "È vietato all'uomo imporsi delle torture". E riguardo alla Tzedakà dissero (Talmud Yerushalmi, conclusione del trattato Peà 8, 9): "Chiunque abbia bisogno di ricevere [Tzedakà] e invece rinuncia, si rende colpevole di spargimento di sangue". E riguardo all'espressione (Genesi 2, 7) "Un essere vivente" dissero anche (Talmud Bavli, Taanit 22b): "Fa' vivere l'anima che ti ho dato". E riguardo al detto "Colui che si impone un digiuno viene chiamato peccatore" spiegarono (Talmud Bavli, Taanit 11b) che si riferisce in particolare a chi non è in grado di sopportare la sofferenza. Hillel (Midrash Vaykra Raba 34, 3) riferiva il versetto (Proverbi 11, 17): "Colui che è buono fa del bene a sé stesso" alla colazione del mattino e si lavava la faccia e le mani in onore del suo Creatore, deducendo [questa usanza] a maggior ragione dalle effigi dei re21.


Ecco quindi la vera regola: è bene che l'uomo eviti tutte le cose di questo mondo che non sono indispensabili per lui; ma se invece rinuncia a ciò che per qualunque motivo gli è indispensabile, diventa un peccatore perché quella cosa gli è necessaria. Questa è una regola chiara. Ma l'applicazione pratica di questa regola in ogni circostanza è affidata alle considerazioni di ogni individuo e (Proverbi 12, 8) "Ogni persona va lodata secondo la sua intelligenza", perché non è possibile compendiare tutti i dettagli: essi sono troppo numerosi e l'intelletto umano non può assimilarli tutti insieme; deve invece affrontare ogni caso particolare quando si presenta.


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Note del traduttore:
[1] Sulla prudenza, si ripassi il capitolo 2.
[2] Sullo zelo, si ripassi il capitolo 6.
[3] Citazione del versetto dei Salmi (34, 15): "Allontànati dal male e fai il bene".
[4] Per chi non avesse capito: ci si astiene da una cosa permessa che potrebbe in determinate circostanze degenerare e indurre a trasgredire un divieto. Quindi ci si allontana da questa cosa per non incorrere in nessun pericolo di questa sorta.
[5] Si veda un esempio di siepe nel passaggio di Rabbi Shmuel di Sochotchov sul Peccato di Eva.
[6] Il Perush (astinente) è colui che adotta la condotta di astinenza descritta in questo capitolo. Già all'epoca della Mishnà furono designati con il termine Prushim (a volte tradotto "farisei" in italiano) gli Ebrei rispettosi della tradizione ebraica, da cui discendono gli Ebrei di oggi. Dei loro oppositori si son perse le tracce. Chi scrive queste righe ricorda con affetto Rav Elia Kopciowski z"l, che quattro decenni fa (quando era Rabbino Capo di Milano) ci insegnava a portare con fierezza l'appellativo di "fariseo" e a difenderlo fermamente dalle persone e dai testi che lo usano nei riguardi del Popolo Ebraico con intenzioni poco cordiali.
[7] La Pesikta Derav Kahana è un Midrash redatto all'epoca del Talmud.
[8] Rabbi Yehuda Hanassì premette di avere dedicato durante la sua vita tutte le sue dieci dita al servizio della Santa Torà. Rashi spiega che nella seconda parte della frase Rabbi Yehuda Hanassì afferma di non avere tratto un beneficio terreno da questo sforzo delle sue dieci dita nemmeno in proporzione all'opera del proprio mignolo (nonostante egli fosse notoriamente ricchissimo). Questo episodio è narrato anche nel Tana Devé Eliahu Rabba 26, 21.
[9] Il nostro testo di Tana Devé Eliahu Rabba 26, 20 dice "ciò che si mangia e si beve in eccesso".
[10] Il Ramchal adotta qui l'interpretazione proposta per questo versetto dal Metzudat David (Rabbi David Altschuler). La maggior parte degli altri principali commentatori propone una chiave di lettura diversa.
[11] Si veda Devarim (21, 18-21).
[12] La Sotà era una moglie sospettata di adulterio. La procedura per accertare i fatti e permettere a lei e a suo marito di salvare il matrimonio è discussa nel trattato di Sotà.
[13] Talmidè Chakhamim nel testo originale.
[14] Cioè si affrettava.
[15] I divieti di Kilaim includono il divieto dello Shaatnez, che impone che la composizione di nessun indumento comporti lana e lino insieme (si veda Vaykrà 19, 19 e Devarim 22, 11).
[16] Le frange menzionate più volte tra i precetti della Torà (si veda Bamidbar 15, 38-40 e Devarim 22, 12).
[17] Ovviamente, questo succede quando i vestiti rispettano anche le regole della decenza e convengono alla persona che li porta.
[18] Diversi passaggi del Tamud narrano la grande amicizia tra il Maestro Rabbi Yehuda Hanassi (il redattore della Mishnà) e l'imperatore Antonino. Il nostro testo cita la ricchezza della loro mensa, ma va menzionata soprattutto quella del loro prolungato dibattito intellettuale.
[19] Questo è il famoso Midrash sui frutti che hanno odore e sapore e quelli che non ne hanno. Lo studio del testo originale di questo Midrash sembra richiedere una chiave di lettura diversa e suggerire un significato diverso da quello che gli viene generalmente attribuito: il lettore in cerca di approfondimenti interessanti per il suo studio non mancherà di trovarne in questo Midrash.
[20] In breve: quando il profeta Elia rimproverò Rabbi Yehoshua ben Levi (un importantissimo Maestro del Talmud) per una sua decisione, questi protestò affermando di avere agito secondo la regola. Al che Elia rispose che effettivamente la regola è quella, ma il devoto deve agire seguendo i canoni della devozione e quindi la decisione da prendere avrebbe dovuto essere diversa.
[21] Se le immagini dei re che ornano circhi e teatri vengono curate e ripulite da un inserviente che viene ricompensato per questa mansione, a maggior ragione un uomo, creato a immagine e somiglianza di Hashem, deve accudire a sé stesso.

Testo originale in Ebraico del cap. 13 del Messilat Yesharim

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Tratto dal sito www.anzarouth.com : Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduzione e note di Ralph Anzarouth.
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